5 dicembre

Oggi, ma nel 1997, a Peschiera Borromeo, in provincia di Milano, nel dì del funerale romano, veniva annunciata, per il giorno dopo, 6 dicembre, al cine-teatro comunale “Vittorio De Sica”, con la proiezione di “Cocco Bill”, il personaggio più celebre, la prima iniziativa, a livello nazionale, celebrativa del genio del capostipite dei fumettisti del Belpaese Benito Jacovitti, morto, per emorragia cerebrale, 48 ore prima, il 3 dicembre, a 74 anni, nella Capitale. Era spirato trascinandosi nella tomba anche la moglie. Floriana “Lilli” Jodice, di 72, conosciuta nel 1944 a Firenze e sposata nel 1949, deceduta, di crepacuore, a distanza di 3 ore dal marito. Come riportato nella pagina “Milano di sera” del “Corriere della Sera” del 6 dicembre di quel 1997, l’omaggio al disegnatore molisano originario di Termoli, in quel di Campobasso, previsto nella struttura di via don Luigi Sturzo, rientrava nella rassegna dedicata al cinema d’animazione. L’inizio dell’appuntamento era preannunciato per le 15. Jacovitti, autore difficilmente inquadrabile dentro le classiche e alquanto rigide categorie politiche e/o artistiche aveva cominciato a produrre tavole da sedicenne, al settimanale cattolico “Il Vittorioso”, e aveva proseguito senza sosta quasi fino all’ultimo respiro (nella foto, particolare, un episodio a sfondo erotico del “Kamasultra”, presa per i fondelli dell’antico testo indiano del Kāma Sūtra, pubblicato da Mega Publicitas nel 1977 su testi di Marcello Marchesi). Senza troppi giri di parole, beffe, nonsense, paradossi, lische di pesce e salami con le gambe, con i quali aveva infarcito a profusione le sue sgangherate benché curatissime storie avevano cambiato la percezione dell’umorismo tricolore realizzato su carta col pennarello. “Eia Eia baccalà”, parodia dello slogan dannunziano e mussoliniano dei legionari fiumani prima e delle camicie nere della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale poi era diventato un irriverente motto di sfottò di tutto il periodo pre e post dittatoriale dell’Italietta littoria. Si definiva un clown. Aveva votato liberale e si professava un estremista di centro. Col faccione incorniciato dagli occhiali dalla montatura vistosa, il ghigno e la nuvola di fumo del sigaro perennemente acceso, era sostanzialmente un anarchico. Sia con che senza il pennarello in mano. Anche se dal ’48 in poi era stato considerato dai suoi detrattori come “fascista” e non per via del nome. Ma perché, in quell’anno, aveva prestato Pippo, Pertica e Palla, illogici figuri usciti dalla sua inesauribile fantasia, al servizio della campagna contro il Fronte popolare dei Comitati civici di Luigi Gedda, conosciuti nel ’44 con Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti rifugiati in Vaticano per le conseguenze dell’infuriare del secondo conflitto mondiale. Con quella mossa s’era guadagnato l’epiteto di “nemico del popolo” uscito dalla bocca del Migliore. Così, infatti, il segretario del Partito comunista italiano lo aveva bollato alla Camera sottolineando pure la sua linea d’appartenenza filo-clericale. Lui, beatamente se ne fregò seguitando col suo lessico dell’assurdo, la sua comicità talmente fuori dalle righe da essere in grado d’infliggere, sempre col sorriso -benché talvolta anche un pochino amaro- una vera e propria lezione di stile a generazioni d’italiani: “Vietato cosare”.

