Bambini del bosco, la zia: «Costringerli a frequentare la scuola li danneggerà»

Rachael Birmingham scrive da Melbourne: «Sono stata tre settimane con loro. Crescono sani e scelgono di leggere libri invece che stare davanti ai videogiochi»
PALMOLI. È la voce del sangue che cerca di sovrastare il rumore delle carte bollate, ma è anche qualcosa di più complesso: è il tentativo di tradurre un mondo per un altro mondo che sembra non avere gli strumenti per comprenderlo. Da Melbourne, con il timbro di una professionalità riconosciuta e il peso di un cognome che racconta una storia comune, arriva la difesa più appassionata e tecnica dei genitori del bosco. A scriverla è Rachael Birmingham, sorella di Catherine, la madre di origini australiane dei tre bambini allontanati dalla loro casa di Palmoli e collocati in una struttura protetta a Vasto.
La lettera, datata 6 ottobre 2024 e indirizzata ai Servizi sociali del Comune del Vastese, non è un documento qualunque. Per comprendere il peso specifico di queste due pagine fitte di osservazioni, bisogna prima capire chi le ha scritte e, soprattutto, da quale prospettiva. Rachael Birmingham non scrive solo come una zia preoccupata per le sorti dei nipoti finiti al centro di un fascicolo della giustizia minorile italiana. Scrive come un’esperta. E lo fa mettendo sul piatto, fin dalle prime righe, un curriculum che serve a dire una cosa molto semplice: so di cosa sto parlando.
Nel dibattito pubblico e giudiziario attorno alla famiglia Trevallion-Birmingham, spesso si è fatta confusione tra stili di vita alternativi e incompetenza genitoriale. La lettera di Rachael prova a sgombrare il campo da questo equivoco. «Mi sento di esprimere le seguenti osservazioni, in virtù del mio percorso professionale», esordisce. Non è un incipit affettuoso: è un incipit formale. Rachael spiega di essere una psicologa con vent’anni di esperienza, un dettaglio che sposta immediatamente la questione dal piano emotivo a quello clinico.
Il suo lavoro si svolge a Victoria, in Australia, dove gestisce «un programma dopo scuola di sviluppo di competenze di vita». Ma c’è di più: Rachael lavora all’interno del sistema scolastico. È «responsabile di supporto all’istruzione» alla Sacred Heart Primary School, la stessa frequentata da suo figlio. E, prima ancora, ha passato otto anni come docente universitario alla Trobe University Australia. Perché questo elenco è importante? Perché serve a costruire una piattaforma di credibilità. Quando Rachael dice che i bambini stanno bene, non lo dice (solo) perché vuole bene a sua sorella. Lo dice perché ha passato la vita a valutare il benessere dei minori.
C’è poi un altro aspetto che rende questo documento diverso dalle relazioni che siamo abituati a leggere. Solitamente, le perizie si basano su incontri protetti e limitati. Qui siamo di fronte a quella che, in sociologia, si chiamerebbe «osservazione partecipante». La psicologa racconta di un soggiorno di tre settimane avvenuto nel maggio del 2024, direttamente nella proprietà di contrada Mondola.
Tre settimane sono un tempo lungo. In tre settimane le maschere cadono e le routine si svelano. Rachael era lì. Ha visto come si svegliano i bambini, cosa mangiano, come interagiscono. E la sua conclusione è netta, quasi provocatoria se letta con gli occhi di chi ha firmato l’ordinanza di allontanamento: «Ho riscontrato un ambiente molto sicuro e accogliente per i suoi tre figli».
La psicologa entra nel dettaglio dei bisogni primari, parlando di «cibo fresco, nutriente ed eccellente», ma soprattutto di bisogni emotivi. Scrive che questi sono stati «soddisfatti con sentimento, richiamando l’importanza della famiglia, e riconoscendo il contributo e il valore che ciascun bambino porta». È una frase densa. Suggerisce che in quella casa ogni bambino non è un soggetto passivo da accudire, ma un individuo riconosciuto.
Il punto centrale della lettera, e di tutta questa vicenda, è però l’istruzione. È qui che lo scontro culturale tra il modello dei Trevallion e le leggi italiane si fa più duro. I genitori hanno scelto l’unschooling, una filosofia educativa basata sull’apprendimento naturale guidato dagli interessi del bambino. In Italia è una pratica guardata con enorme sospetto. Rachael Birmingham prova a spiegare che non è evasione scolastica. E lo fa usando un metodo comparativo: confronta i suoi nipoti «non scolarizzati» con suo figlio, che invece va a scuola. «I loro bisogni mentali sono nutriti a casa attraverso l’approccio unschooling», scrive. E aggiunge che questo è emerso chiaramente «durante il nostro soggiorno e dalle loro interazioni con mio figlio».
Il risultato di questo confronto è sorprendente. La psicologa non solo non vede carenze, ma si spinge a definire il livello di cura ricevuto dai nipoti come «eccezionale rispetto alla maggior parte delle culture occidentali». È un passaggio che merita di essere riletto. Un’esperta che lavora dentro il sistema scolastico australiano osserva tre bambini che imparano raccogliendo legna o ascoltando storie, e conclude che il loro livello di soddisfazione dei bisogni è superiore alla media. È una critica implicita al nostro modello di vita, fatto di tempi serrati e compiti a casa.
La lettera tocca anche il tema del digitale. Mentre noi ci preoccupiamo di limitare il tempo che i nostri figli passano davanti agli schermi, nella casa del bosco il problema non si pone. Rachael nota che i bambini «non sono mai influenzati da giochi o dispositivi che possono distruggere lo sviluppo di un bambino». Ma, attenzione, non vivono nel vuoto. Hanno accesso a risorse: «Numerosi libri educativi, podcast e video educativi, musica e strumenti». La differenza sta nella scelta. Secondo la zia, i bambini «scelgono di leggere libri che avranno un impatto positivo diretto sul loro sviluppo accademico piuttosto che giocare ai videogiochi». E i risultati si vedono: «Sono esposti fin dalla più tenera età all’apprendimento di due lingue».
Uno degli argomenti usati per giustificare l’allontanamento è stato il presunto isolamento sociale. Anche su questo, la lettera offre una narrazione diversa. Parla di una famiglia che ha costruito «legami estremamente forti con la gente del posto, i loro vicini e i membri significativi della comunità». Descrive bambini «esperienziali», che imparano «a conoscere la cultura italiana dagli anziani che li circondano, da amici con figli». Non sembrano bambini chiusi in una bolla, ma immersi in una rete di relazioni intergenerazionali. «Stanno imparando ad apprezzare il loro ambiente e la comunità che li circonda», annota la psicologa.
La parte finale del documento è clinicamente più allarmante. Riguarda la figlia maggiore, otto anni. È lei l’anello più esposto al trauma del cambiamento. Rachael Birmingham qui smette di descrivere e inizia a diagnosticare un rischio. «Credo anche che potrebbe essere dannoso per il benessere emotivo costringerla a frequentare la scuola», scrive. Non dice che sarà difficile. Dice che sarà dannoso.
La bambina viene descritta come «visibilmente ansiosa di frequentare la scuola». La psicologa spiega che non si tratta di una semplice paura, ma di un conflitto di valori profondo: «Ha adottato una preferenza ideologica per l’apprendimento da casa, quindi è intrinsecamente in conflitto sull’andare a scuola». Stiamo parlando di una bambina che ha interiorizzato il modello dei genitori come parte della propria identità. Strapparla a quel modello, separandola dai fratelli, è visto come una violenza psicologica. «Costringere la bambina a frequentare la scuola non farà che peggiorare la sua situazione», avverte la zia. «Il pensiero diffuso che un bambino debba per forza frequentare la scuola si traduce così in traumi e danni a lungo termine».
Questa lettera è ora agli atti: fa parte della documentazione al vaglio del tribunale per i minorenni dell’Aquila (presieduto da Cecilia Angrisano) che, dopo l’udienza dello scorso 4 dicembre, si è riservato sulla richiesta di revoca dell’ordinanza di allontanamento avanzata dai legali di Catherine e Nathan, gli avvocati Marco Femminella e Danila Solinas. Siamo di fronte a un caso che è un test di stress per il nostro sistema. Fino a che punto la libertà educativa può spingersi? Rachael Birmingham, dal suo osservatorio di Melbourne, ci dice che esiste un’altra via, dove i bambini sono sani e colti anche senza campanella.
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