Carichieti, parla Di Fabrizio: lascio la banca perché stimo Sora

L'autista-politico finito nella bufera, si licenzia: per vent’anni ho guidato auto dei direttori, mai la Cassa
CHIETI. Signor Di Fabrizio, è vero che da una stanza con poltrona in pelle e scrivania di massello, all’ottavo piano di palazzo Carichieti, governava la banca?
«Ma che cosa dice! Sono tutte falsità. Ero un semplice autista e capo commesso».
Sessantaquattro anni da compiere il 30 novembre, la Fiat Idea parcheggiata in via Colonnetta, l’orologio da 300 euro al polso e una licenza di terza media, Domenico Di Fabrizio esce per l’ultima volta dalla Cassa di Risparmio di Chieti alle 12 di ieri. Due ore prima è entrato nella stanza di Riccardo Sora. Lo aspettava.
Il commissario di Bankitalia è di poche parole: meno di dieci minuti di colloquio, la stretta di mano e un austero “buongiorno” sono bastati per scrivere la parola fine a 35 anni di rapporto tra Di Fabrizio e la Cassa di Risparmio decapitata da Bankitalia. Parla al cellulare l’autista e politico supervotato a Chieti con il centrodestra passato però dalla parte opposta, prima di finire nella tempesta scatenata da Bankitalia. Ora cammina, con passo veloce, sul marciapiede davanti alla sua ex banca. «No, non rilascio interviste». Neanche due battute sulle dimissioni? «Ho fatto la cosa giusta. Venga, ci prendiamo un caffè al bar qui vicino. Le dico subito non rispondo a domande sulla Carichieti». Vedremo.
Di Fabrizio, quanto ha impiegato a svuotare il suo ufficio all’ottavo piano, quello delle stanze dei bottoni? Dicono che sia uscito con scatoloni pieni di roba...
«Ma quali scatolini. E quale ottavo piano. Non avevo alcuna stanza. Sono uscito solo con la mia ventiquattr’ore».
Va bene la valigetta e il mestiere d’autista, ma nel rapporto di Bankitalia si legge tutt’altro. Dicono che era “in grado di incidere sui meccanismi che concorrono a determinare gli equilibri interni alla Fondazione e per tale via su quelli della Cassa”. L’autista più potente d’Italia?
«Ero come gli altri autisti. L’ho fatto per vent’anni e con tutti i direttori generali, Giuseppe Pace, Silvio Donini, Francesco Di Tizio e Roberto Sbrolli. Ero amico di Remo Gaspari anche se non ho mai avuto la fortuna di portare la sua auto».
Mi tolga una curiosità: ha gettato la spugna o l’hanno costretta a licenziarsi?
«Sono sereno. Ho molta stima della Banca d’Italia e del commissario Sora. E conosco colleghi della stessa banca che stimo molto. Aggiunga che ho molto rispetto delle istituzioni. Basta così».
Non vuole dire nulla sul commissariamento? Di che cosa ha paura? Teme di dover restituire soldi?
«Assolutamente no, quelli me li sono guadagnati. Come ex dipendente e per il bene di 600 famiglie che ci lavorano mi auguro che la banca rimanga autonoma magari supportata da imprenditori abruzzesi. Mi raccomando scriva pure che lascio Carichieti con un abbraccio fortissimo ai colleghi e alle colleghe. Non mi chieda altro, non le rispondo».
Neanche se parliamo di politica. Lascerà anche quella, cambierà schieramento?
«Non lo so. Deciderò nei prossimi giorni. Ora sono in pensione, me lo posso permettere dopo 35 anni. Ma a chi insinua che non avevo i numeri per una lista dico che non ho concorso alle provinciali».
Il caffé è finito, anche l’intervista. C’è il tempo per uno squillo al dg, Roberto Sbrolli. Ha ottanta giorni di ferie da smaltire: «Per dieci anni non le ho fatte», dice con una risposta lampo, «mi riposo, non è ancora tempo di parlare di dimissioni».
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