Chieti, il tribunale fallimentare dichiara l’insolvenza della ex Carichieti

20 Luglio 2016

I giudici: la banca messa in ginocchio dalle svalutazioni sui crediti, però non è stato possibile verificarne la congruità

CHIETI. Sessantadue pagine piene di grafici e di tabelle che si concludono con la dichiarazione dello «stato di insolvenza della Cassa di risparmio di Chieti spa in liquidazione coatta amministrativa ai sensi e per gli effetti degli art.38 del decreto legislativo 180 del 2015 e dell’art.82 comma 2 del Testo unico bancario». Ma nella sentenza depositata ieri dal tribunale di Chieti, con Nicola Valletta giudice estensore e Geremia Spiniello presidente, ci sono parecchie sorprese. A cominciare dalle riserve espresse dai magistrati sulle valutazioni (e gli omissis) presenti nella documentazione prodotta dalla Banca d’Italia e dai commissari straordinari che hanno guidato la Carichieti prima della “risoluzione”, decisa nel novembre dello scorso anno.

In poche parole la ricostruzione dei magistrati del crac della Cassa di risparmio si può riassumere così: è vero che, alla data della risoluzione, la banca aveva un patrimonio netto negativo, dopo perdite per circa 150 milioni di euro nel bienno 2014-2015, tale da non consentire il proseguimento della normale attività creditizia. Ma questo risultato è stato conseguito a seguito di svalutazioni finali sui crediti per circa 243 milioni, sui quali il tribunale ritiene di non essere stato messo in grado di valutare la congruità.

Si legge infatti a pagina 59 della sentenza: «Quanto alle ulteriori svalutazioni operate dagli organi commissariali, va osservato che le richieste formulate dal Tribunale (in data 6 maggio 2016...)sono rimaste per quanto visto sopra sostanzialmente e significativamente inevase. Non è quindi possibile ripercorrere l’iter logico e deduttivo seguito dalla Carichieti in amministrazione straordinaria nell’effettuare tali rettifiche, che appaiono astrattamente ben al di sopra delle prassi prudenziali contabili».

In parole povere: i giudici lamentano di non essere stati messi in grado di verificare se la valutazione dei crediti di difficile o impossibile esigibilità sia stata fatta correttamente o si sia invece rivelata troppo severa. Mancando queste informazioni posizione per posizione (forse motivate dal rispetto del segreto bancario), i magistrati hanno dovuto accettare a scatola chiusa le cifre fornite da Bankitalia e dai commissari e dichiarare quindi lo stato di insolvenza richiesto di fatto dalla stessa autorità di vigilanza, attraverso il liquidatore, l’avvocato romano Massimo Bigerna. Con un distinguo decisamente clamoroso: l’insolvenza viene dichiarata a seguito della dichiarazione di risoluzione, che di fatto ha trasferito quel che restava di sano nella banca in una nuova entità. Ma, scrivono i giudici fallimentari, «in atti non vi sono elementi che consentano di affermare l’esistenza di uno stato di insolvenza al momento dell’avvio della risoluzione». Sembra un tecnicismo, ma in in realtà si tratta di un distinguo non di poco conto, dato che la precisazione potrebbe sollevare di parecchio la posizione dei vecchi amministratori della Carichieti, ritenuti a rischio di pesanti azioni penali e risarcitorie al pari di tutti i dirigenti delle banche poste in risoluzione. Non a caso erano stati proprio tre ex consiglieri della banca, Ennio Melena, Giuseppe Di Marzio e Giuseppe Martino, affiancati dal vecchio direttore generale, Roberto Sbrolli, a intervenire nella procedura per opporsi allo stato di insolvenza.

Resta un interrogativo di fondo: la Carichieti poteva essere salvata? Le 62 pagine della sentenza ricostruiscono con precisione anche questo aspetto di cui molto si è discusso, dato che i guai della banca, ormai due anni orsono, iniziarono non per uno sbilancio patrimoniale, ma per gravi carenze e violazioni nella governance.

Su questo punto, però, la ricostruzione dei conmissari straordinari nominati da Bankitalia è molto netta e non lascia spazio a interpretazioni: Carichieti poteva farcela solo con un’iniezione di capitale fresco per 150 milioni da parte di un nuovo socio, che avrebbe riequilibrato i coefficienti patrimoniali ormai saltati. Ma purtroppo l’azionista di maggioranza, la Fondazione Carichieti, non aveva i mezzi per intervenire e tutti gli altri possibili finanziatori risposero picche. Lo spiegano i commissari nella relazione (finora segreta) riprodotta a pagina 20 della sentenza, in cui si racconta che per primo si bussò alla porta di Banca Intesa, che all’epoca era socio di minoranza dell’istituto teatino. La risposta fu che l’interesse era solo per un intervento temporaneo, ma con la garanzia di una successiva liquidazione dell’intera partecipazione, ritenuta da tempo non più strategica. Senza successo furono anche i contatti con altri interlocutori che sono facilmente identificabili con la Fondazione Pescarabruzzo, la Banca di Credito cooperativo di Roma e la Banca Popolare di bari. La prima, attraverso il presidente Nicola Mattoscio, manifestò una disponibilità di massima, ma legata alla presenza di un socio industriale, mentre gli altri due si defilarono ben presto davanti alla criticità della situazione. Ma un nuovo, solido azionista, secondo i commissari serviva non solo per portare denaro fresco, ma anche «per recidere il nodo gordiano fatto di interessi e opacità...» nella gestione localistica di Carichieti. Morale della favola: la banca potrà essere venduta solo oggi, come riferiamo a pagina 8, ripulita dell’enorme massa di crediti difficile, da tempo trasferiti a una bad bank creata dalla Banca d’Italia, la Rev.