Un frame del corto Frontiera

L'INTERVISTA

Alessandro Di Gregorio: «Nei miei film racconto l’umanità che resiste» 

Il regista vastese David di Donatello: «Dal Super8 a Kubrick: un volo tra storie vere fino a Frontiera»

Del cinema ama la carne viva, la fattura artigianale, l’odore del set, la scrittura per immagini, suoni colori ombre che piombano addosso dallo schermo. Alessandro Di Gregorio ora “stringe” tra le dita la statuetta del David di Donatello vinto con il suo ultimo cortometraggio, “Frontiera”, premiazione annunciata – unica con quella di “Roma” di Alfonso Cuaron – martedì con le nomination 2019 per il premio più prestigioso del cinema italiano, che materialmente sarà assegnato il 27 marzo con una cerimonia in diretta su Rai 1 condotta da Carlo Conti.


E fin qui questo “ragazzo” di 44 anni che di film, inquadrature, storie da tradurre in immagini parlerebbe senza sosta, ci è arrivato con anni di gavetta appassionata e voluta. Sui set, come acting coach, aiuto e assistente alla regia di fiction, spot, documentari, film, insomma con un percorso “classico”.
Un viaggio cominciato sui banchi del liceo a Vasto, città dove è nato, primo della sua famiglia che viene da Nocciano, nel Pescarese, dopo il trasferimento con papà Mario, titolare di una ditta di ascensori, mamma Ida Di Felice, casalinga, e due fratelli. «Tormentava» i compagni di classe «costringendoli» a corredare ogni ricerca assegnata dai professori con riprese da fare fino a notte in giro per vicoli e spiagge del suo bel centro sul mare, tra i trabocchi e gli alberi di limone, a cercare luci “giuste”.
Allora stringeva tra le mani «la mitica cinepresa Super8» del padre, che conserva gelosamente, e vedeva «film americani di serie B». Il seme «del cinematografaro» era piantato, si preparava a germogliare. “Frontiera” (14 minuti) , prodotto da Simone Gattoni, è stato presentato alla Settimana internazionale della Critica del Festival di Venezia 2018 e ora è visibile su Raiplay. Girato a Lampedusa, parla di migranti e ha come protagonisti due ragazzi (interpretati dai bravissimi Fiorenzo Madonna e Bruno Orlando) e i loro destini incrociati: sono sullo stesso traghetto che li sta portando sull’isola, uno per la sua prima missione da sommozzatore con il compito di recuperare i morti in mare, l’altro al suo primo giorno da necroforo, chiamato a seppellirli.
Cosa sono le frontiere oggi? Per me le frontiere sono semplicemente immagini disegnate dagli uomini sulle cartine geografiche. Il vero problema sono le frontiere mentali che stanno cercando di innalzare tra di noi, tra gli esseri umani, sono quelle che bisogna abbattere. Penso che non esista un’emergenza migranti, l’unica emergenza è quella umanitaria, quella di persone che ogni giorno muoiono in mare cercando di attraversare una frontiera immaginaria.
Nel suo corto come le racconta?
“Frontiera” è il viaggio all’inferno di due ragazzi, un percorso tra l’innocenza e la sua perdita. I due ragazzi non parlano, ho pensato che le parole sarebbero state di troppo di fronte all’eloquenza delle immagini. È stata una sfida.
Come è nata l’idea?
È nata dopo la strage di migranti nel mare di Lampedusa nel 2013 ed è venuta allo sceneggiatore Ezio Abbate (che ora firma Suburra 2 ndr) leggendo un articolo su la Repubblica di Attilio Bolzoni, che raccontava proprio il punto di vista di un sommozzatore e di un necroforo assoldati per quell’emergenza.
Come è cominciata la sua avventura nel cinema?
Appena finito il liceo a Vasto sono venuto a Roma, mi sono iscritto a Scienze della comunicazione e in facoltà ho conosciuto persone che si cibavano di cinema. Ho cominciato scrivendo fiction per la Rai, penso a “Stiamo bene insieme”(2002), che racconta la convivenza, gli amori, lo studio, i conflitti generazionali di un gruppo di studenti universitari fuorisede e delle loro famiglie. Poi in realtà io non volevo scrivere, ma stare sul set, era il mio sogno, quello per cui sono andato a Roma. E ho lavorato tanto sul set, tra spot – anche di promozione del territorio, in Abruzzo – documentari, film.
E a proposito di documentari, nel 2007 arriva il suo “8744” (premiato al Festival del documentario di Pescara), firmato con Emiliano Sacchetti, in cui è presente un pezzo importante del “suo” Abruzzo, suo nonno Antonio.
Mio nonno ci rientra in maniera strana. Protagonista era un professore tedesco, Lehmann, che nella sua classe e si era occupato di persone costrette a lavori forzati dopo i rastrellamenti dei tedeschi seguiti all’8 settembre del ’43. 1500 civili deportati oltre il confine con l’inganno: arrivati gli dissero o combatti per la Repubblica di Salò o vai ai lavori forzati. Ne morirono oltre la metà. Si chiamavano “internati militari”, 8744 è il numero di uno di loro. Il professor Lehman (che sento ancora) ingaggiò una battaglia per il riconoscimento come vittime di guerra, fece giustizia dove due nazioni, Italia e Germania, non riuscivano. Racconto un’altra resistenza. Le storie di ognuno di loro incontrato con Lehmann alla consegna dell’assegno, circa 700 euro. E c’era nonno che raccontava. È stato il primo nostro documentario, perché non sono mai solo, lavoro con Renata Salvatore, aquilana, che ha montato tutti i miei lavori compreso il corto, con lei condivido il lavoro e la vita, una bambina. E poi la direttrice della fotografia Clarissa Cappellani.
Una storia vera di “altra resistenza” anche nel suo secondo docufilm, “Per chi suona la campanella” del 2009.
Sì, la battaglia del sindaco di Acquaformosa, in Calabria, per evitare che il decreto Gelmini chiudesse le scuole del suo paese e in pratica lo spopolasse condannandolo alla morte. Lo fece mettendo insieme due generazioni: i bambini, che insegnavano a leggere e far di conto ad anziani spesso analfabeti di ritorno, e questi che insegnavano ai piccoli a fare l’orto, la pasta, il formaggio... Mi piacciono le storie positive, le persone che cambiano il corso delle cose.
Quali sono i suoi “maestri” ?
A Vasto non arrivavano tanti film quando ero ragazzo. Avevo la mia videoteca di fiducia. Non sono partito con i grandi registi, ma con film (quanti!) di serie B americani, sconosciuti ai più. Poi la formazione vera con Truffaut e Hitchcock. Ma qualcosa di più importante è scattato con Kubrick. Al corso di regia si tenne una lezione su “Shining” che mi aprì un mondo: ogni immagine aveva una sua funzione, una costruzione, il fondo rosso per Jack Nicholson, l’inferno... Il modo di inquadrarlo dal basso, le prime inquadrature con la macchina che corre tra montagne... Era scrivere nella macchina da presa, tanto di questo si trova in Hitchcock. E si ritrova in “Frontiera” la ricerca delle parole giuste attraverso le immagini.
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