Gadda in Abruzzo «L’ùlulo dell’inverno come un lupo...»

Lo scrittore inviato speciale negli anni Trenta fra Marsica, L’Aquila e Teramo

di Giuliano Di Tanna

«Se mi vede Cecchi sono fritto» è un titolo che, per i cultori della materia, basta e avanza per capire chi parla fra virgolette. La materia qui è Carlo Emilio Gadda, il Gran Lombardo autore di libri fondamentali del Novecento, come “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” e “La cognizione del dolore”. Il titolo è quello della raccolta di lettere che, all’inizio degli anni Sessanta, si scambiarono Gadda e Goffredo Parise, pubblicato, nei giorni scorsi, da Adelphi (346 pagine, 18 euro), che va ad aggiungersi a una serie di volumi (“Un gomitolo di concause”, l’epistolario Gadda-Citati del 2014, e “Per favore mi lasci nell’ombra”, collezione di interviste, del 1993) sempre editi da Adelphi, che vanno incontro a un interesse per lo scrittore lombardo che, dalla morte nel 1973, non sembra conoscere declino. Senza tralasciare “L’Ingegnere in blu”, il libro-ritratto che, nel 2008, gli dedicò Alberto Arbasino, uno dei suoi “nipotini”.

In questa linea di recupero di tutto ciò che è gaddiano si inserisce anche il bel libro curato dallo scrittore aquilano Errico Centofanti, “Le Meraviglie d’Abruzzo”, edito nel 2001, che raccoglie articoli che Gadda scrisse inviato in Abruzzo sulla . Gazzetta del Popolo tra il 1934 e il 1935.

«Giunto in Abruzzo», scrive Centofanti, «Gadda ha da fronteggiare in primo luogo le esigenze dell’attualità. Dunque, spedisce subito a Torino due corrispondenze, La filovia del Gran Sasso d’Italia e Apologo del Gran Sasso d’Italia, che vengono pubblicate il 13 Novembre e il successivo 22. Poi, si mette a scardare, filare e tessere gli appunti accumulati durante il soggiorno abruzzese. Il primo pezzo che manda, però, è un pastone piuttosto indigesto: Fatti e miti della Marsica nelle fortune dei suoi antichi patroni. Il testo risulta assai poco somigliante al resoconto d’un inviato speciale che abbia scandagliato i fatti sul campo. E’piuttosto un assemblaggio di scampoli pescati nel retrobottega dell’erudizione gaddiana. Infatti, Amicucci (il direttore, abruzzese di Tagliacozzo ndr) fa uscire l’articolo il 4 Dicembre ma fulmina impietosamente il neo-inviato-speciale: “Questo articolo avrebbe potuto essere scritto anche senza andare nemmeno per un’ora nella Marsica. Tenga quindi presente che gli altri articoli sull’Abruzzo devono essere meno libreschi e più visivi”». Gadda obbedisce, come era nella sua natura, ma senza tradire la sua lingua e lo sguardo obliquo sul mondo che la sorregge.

«I sei articoli apparsi sul quotidiano torinese, insieme con altri materiali gaddiani», ricorda Centofanti, «verranno poi raccolti in volume per la prima volta nel 1939 presso i Fratelli Parenti di Firenze, inaugurando l’intitolazione Le meraviglie d’Italia. In quell’occasione, Gadda aggiunge note di non trascurabile entità e modifica alcuni titoli: La filovia del Gran Sasso d’Italia diventa La funivia della neve, Antico vigore del popolo d’Abruzzo viene trasformato in Le tre rose di Collemaggio, Fatti e miti della Marsica nelle fortune dei suoi antichi patroni esibisce l’accezione tronca de’ in luogo dell’originario dei. I testi d’ispirazione abruzzese, però, sono sette. L’ultimo, Verso Teramo, non ha mai trovato la strada d’una tipografia di giornale, il che appare perfettamente comprensibile, una volta che lo si sia letto. Certamente contemporaneo degli altri sei testi, esso diventerà noto solo nel 1943, con la pubblicazione nel volume Gli Anni».

L’Abruzzo che Gadda scopre e racconta è una terra di sentimenti primari e di primitiva bellezza. Ecco come l’Ingegnere racconta l’inizio del suo viaggio verso Teramo. «Al passo delle Capannelle ha principio o fine, secondo chi vada, una lunga bocca montana, sui milletré circa: donde, andando ad oriente com’io facevo, saluti rivolgendoti i colli, le acque, i campi signoreggiati dall’Aquila: che porta, negli occhi, la spera fulgidissima del sole. Se quelle terre le lasci, tu allora ne rimpiangi, dico da quell’altitudine e da quel valico, i nobili marmi, di mano di Francesco Ariscola e, posando, pensi: “Addio, bel ducato! con antichi argenti per la tua Croce, che ha gemme, lungo i cammini della neve, di turchesi rare, e faville: e ha stille di sangue in rubini!”. Oh! il monte ora è freddo, è povero ed aspro. Neppur la capra vi vedi, nella gola del silenzio, non un pastore, non un capanno: la cantoniera è lontana: né il fischio, vi odi, di chi ti poteva chiamare con quel saluto. Poc’anzi i folti dei pini, nere falangi all’assalto, ci avevano accompagnato verso la solitudine: giovani e tozzi, come una fanteria compatta de’ Marsi e degli Apuli, all’assalto del monte. Le brigate forestali ne propagano la disciplina sull’erta, sulle calve piagge: il vento, ne’ suoi subissi, prorompe contro le centurie affiancate».

«Quella gola», prosegue lo scrittore-reporter, «recide, ed è un taglio assai netto, la doppia catena del Gran Sasso dai minori gioghi dell’ovest. La strada poi ridiscende, con l’andatura e l’ampiezza maestra che le conosciamo e bianco-neri segni dai margini, verso chiarità celesti, presagio dell’Adria, e brune o rosse terre. Gli uomini sono lontani. E ne deduce la gravità sola, mollemente, in direzione del mare, con cuscini scarlatti sotto la nostra agiatezza, spento il motore. Da questa sassonia dovrebbe spicciar l’acqua, che poi diventa Vomano: pure, non dà notizie di sé».

Il 27 marzo Gadda sosta all’Aquila. Ecco il resoconto della sua scoperta, nel pezzo che porta il poco gaddiano titolo di “Antico vigore del popolo d’Abruzzo”.

«Lasciatemi sostare nel mio sogno e nella mia devozione, se pure ùrgano il tempo e le cose. Lasciatemi qui dove la piazza chiara si apre, declive ai gradini, all’arco e alle due torri del Duomo: piena di tende, di gabbie di polli: fruttifera e insigne di peperoni, di bretelle, di padelle, di pantofole, di paralumi, e di piatti mal cotti, che 5 il lucchese uno dopo l’altro li lancia nel cielo e poi come un giocoliere li riprende: “La mi dànno una lirina soltanto e se lo pòrteno via!”. E più celere ancora di quel gitto è la sua parlantina toscana sopra le donne torve, accigliate; che ne diffidano. Poi finiscono per cavare, dal bisunto, venti centesimi al pezzo. Stamane esse circonderanno i lari della 10 nuova terraglia, come d’una fornitura completa da tiro a segno: forse, da basso, arriverà il procaccia con una lettera, del figlio in Ascoli, o brigadiere a Tarvisio. Capegli e voci nel vento. Uomini di fuori le mura, serve, attendenti con una sporta; e dolci colombi fra i piedi: mettono sovra i tendoni, a un tratto, il loro volo cinèreo: càvoli e pomidori consegnano all’aria le potenti vitamine dello spirito. Calze e giocattoli, pettini, sapone 15 verde, limoni: compatte maglie di lana, contro i gelidi ululati dell’inverno. La pòlis della montagna mi è cara: lasciatemi nel sole a mattino. Sotto l’alta direzione della guardia, al tocco, trenta spazzini in un battibaleno con getti d’acqua faranno pulita la piazza, mondàtala da ogni relitto de’ peperoni e de’ cavoli: sarò in delizie, al tocco, fra le ramazze! E dall’ampio lavacro emergeranno soli i due giovini di bronzo verde, 20 sopra gli stillanti bacili delle fontane. Forte grazia ne spira, come da due pùberi divinità. I loro piedi hanno la magrezza àlacre che si riscontra ne’ veri piedi de’ giovani ben conformati, adusati al gimnasio e ai diporti: le caviglie sono snelle e se ne rilèvano i tendini. Non hanno piedi gonfi o malvagi, tumefatti da precoce vizio del miocardio o, comunque, del circolo sanguigno».

Il “pezzo” si chiude con una serie di immagini in cui storia e natura sono legate dallo splendore della lingua.

«L’ùlulo dell’inverno, come un lupo, camminerà sui giacinti e il serpe, da primavera, cambierà sette volte la pelle. La chiesa dal disegno purissimo, nel solitario colle, apre le sue porte ai giacinti: vi rubò argento l’Orange, due secoli e mezzo prima che rubassero l’altro in San Bernardino, rubò argento alla tomba. Lasciò le ossa. Quelle ossa, dopo spogliatele del mantello, le 130 aveva già chiuse il Caetani, murandole, nella rocca di Alatri. La chiesa le accoglie davanti Maria con la salvata memoria del destituito, che la voce del suo popolo vindice chiamò agli altari, superando l’oltraggio».

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