Paolo Mieli a tutto tondo, dalle guerre alla politica interna: «Vengo in Abruzzo per parlare di pace»

La nostra intervista al noto giornalista, che arriva mercoledì a Roccaraso: «Il cardinale Zuppi è lo Schindler italiano». E su Mamdani: «Come Schlein, ma a lui hanno dato fiducia»
PESCARA. Paolo Mieli, in Italia, è sinonimo di giornalismo. Può piacere o non piacere, ma l’ex direttore del Corriere della Sera e della Stampa ha segnato un’intera stagione dell’informazione. Al punto che esiste anche una parola, il “mielismo”, che definisce il suo stile. Il collega Filippo Ceccarelli lo aveva definito «un’inconfondibile miscela di spirito alto e materia bassa», con «polpette di zizzania sparse qua e là». Più che di zizzania, però, Mieli adesso si occupa di pace. Su questo tema ha iniziato un dialogo con il cardinale Matteo Maria Zuppi che ha come palcoscenico l’Abruzzo. Dopo gli scorsi appuntamenti a Sulmona, il prossimo, organizzato dall’associazione Adelio Di Natale, è in programma per mercoledì 12 novembre a Roccaraso. Una scelta non casuale: «È su Celestino V che abbiamo iniziato il nostro discorso», spiega, «ed è per lui che abbiamo scelto di parlare di pace qui in Abruzzo, nella sua terra».
Mieli, arrivato a 76 anni, a che ora si alza dal letto?
«Mi alzo alle 5, tutti i giorni».
E cosa fa?
«Leggo tutti i quotidiani italiani, i principali inglesi e americani. E in più, a seconda di ciò che succede a livello internazionale, cerco online. È come se leggessi i giornali di tutto il mondo».
In pratica è il nostro corrispondente dal pianeta Terra.
«Soprattutto su Radio24, dove faccio la mia rassegna stampa internazionale».
Mi è capitato di ascoltarla. La sua ironia è tagliente, ai limiti del sarcasmo.
«È un’ironia che cerco, ma sempre in maniera garbata».
È mai incappato in qualche scivolone?
«In più di uno. Succede quando sei ironico».
Il più brutto?
«Le posso dire quello che, a posteriori, è uno dei più divertenti: quello con Zuppi».
E perché è divertente?
«Perché ora siamo amici».
Prima di parlare di Celestino V, parliamo del suo rapporto con Zuppi. Perché ironizzare su uno dei cardinali più apprezzati dal mondo laico?
«Non ce l’avevo tanto con lui, ma con la missione che gli avevano dato, cioè quella di recuperare i bambini ucraini portati con la forza in Russia».
Le sembrava impossibile?
«Zelensky e Biden lo avevano accolto di persona, mentre quando era andato a Mosca non era stato accolto da Putin né da Lavrov, ma addirittura dalla ministra che, insieme al presidente russo, era stata incriminata dalla Corte penale internazionale per il trasferimento illegale di bambini».
La considerava una missione fasulla.
«Sì. Poi, però, ho cominciato a informarmi, ho parlato con altissimi dirigenti ucraini e ho scoperto che aveva ottenuto dei risultati effettivi. Non era riuscito a riportare tutti i bambini – ovviamente – ma è stato l’unico a portare a casa qualcosa di concreto in un momento, il primo anno di guerra, dove nessuno otteneva nulla».
Oggi come lo valuta?
«Per me è lo Schindler italiano. Anzi, è anche meglio, perché Zuppi non ha nemmeno la macchia – il nazismo – che aveva il protagonista del film. E sa qual è la cosa che apprezzo di più di lui?».
Dica.
«Che è un uomo del fare, non dei proclami. Tutte le sue operazioni sono avvenute in sordina. Appartiene a quella categoria di uomini che, durante una guerra, conta di più».
Mi sembra che lei attribuisca a Zuppi delle qualità da statista di alto livello.
«Direi uniche. Non conosco altri, anche al di fuori della chiesa, che abbiano operato nel suo stesso modo».
Ora la provoco: anche Trump ha ottenuto dei risultati concreti. Basta pensare alla tregua in Medio Oriente raggiunta in mondovisione a Sharm el-Sheikh.
«Per me Trump è quanto più lontano ci possa essere di distante da Zuppi. È vero, il tycoon ha ottenuto un risultato molto importante, ma ne fa una questione di vanteria. Ha spettacolarizzato tutto fino all’eccesso. Il cardinale, invece, opera di nascosto. Ciò che le sto raccontando io è inedito, nel senso che lui non ne ha mai parlato pubblicamente».
A questo punto va spiegato il legame tra lei, Zuppi e Celestino V.
«Una volta conosciuta la realtà della sua missione, lo contattai. Iniziammo a chiacchierare e uno dei primi argomenti fu Celestino V. Ed è in nome di questo papa maltrattato per anni dalla storiografia che abbiamo iniziato questo ciclo di conferenze sulla pace».
Perché?
«Per la Perdonanza celestiniana e il suo messaggio, la figura di Celestino V è anticamera di pace, giustizia e misericordia. E lo dico da persona che non ha nessun legame con la chiesa cattolica».
Continuerete a fare queste conferenze in Abruzzo?
«Certo, le basi di questo dialogo sulla pace sono totalmente abruzzesi e continueranno a essere qui finché le guerre non finiranno».
Sulle guerre torniamo alla fine. Adesso facciamo un salto fino all’altra sponda dell’Oceano Atlantico. Negli ultimi giorni non si fa che parlare della vittoria di Mamdani, nuovo sindaco di New York. Come interpreta questo successo?
«Io ribalterei prima di tutto la prospettiva. A un anno esatto dalle elezioni che lo hanno incoronato, Trump ha dovuto accettare una sconfitta su tutta la linea e non solo a New York. Ha perso in Virginia, in California, in New Jersey... Praticamente dappertutto».
Tutti luoghi dove l’elettorato è prevalentemente democratico.
«Non in tutti. E comunque mi sembra che questa bocciatura totale di Trump abbia un significato maggiore della vittoria di un candidato giovane, musulmano, nato in Uganda e tutto il resto».
Perché?
«Perché è un segnale di quanto la democrazia statunitense sia viva. Si diceva che dei democratici non si sarebbe più parlato per un decennio, e invece ecco che vincono in maniera schiacciante. Questo dimostra la vitalità di un partito da cui la sinistra europea, compresa quella italiana, avrebbe da imparare».
Si spieghi meglio.
«Pensi alla fatica che fanno i partiti europei a rialzarsi dopo una sconfitta elettorale. Lì, invece, la democrazia vive davvero e la gente ha fiducia in questo sistema. Prima delle primarie tutti guardavano Mamdani dall’alto verso il basso, con scetticismo, ma dopo aver vinto tutti gli hanno dato fiducia. Più o meno lo stesso trattamento che è stato riservato a Schlein, con la differenza che lei è trattata così ancora oggi».
Sta dicendo che Schlein è il Mamdani italiano?
«Sto dicendo che nei suoi confronti c’è stato fin dall’inizio un atteggiamento di sufficienza, di chi preferisce stare comodo e non rischiare nulla, non scommettere sui personaggi. È sbagliato, perché significa non credere nella democrazia. Se ci credi, invece, dopo che ha vinto le primarie investi su Schlein come i democratici hanno fatto con Mamdani».
Ora si cimenta in questa apologia di Schlein, ma è uno dei bersagli prediletti della sua ironia.
«Il fatto che mantenga la mia ironia non significa che non creda in lei. Per me Schlein è davvero in grado di arrivare alla meta e affrontare Meloni alle prossime politiche».
È per questa somiglianza con Schlein che Mamdani oggi è osannato da tutto il mondo della sinistra?
«Non proprio. Direi piuttosto che è un segnale di un atteggiamento della sinistra che rivela la sua più grande debolezza».
Cioè?
«Guarda a sempre a modelli stranieri perché non ci crede fino in fondo. E tra l’altro cambia bandiere ogni 6 mesi. Oggi è Mandani, prima era Pedro Sanchez, prima ancora Lula. Qualcosa che si riflette anche sui temi che porta avanti».
Ormai è partito con il suo attacco a sinistra.
«Sono polemiche che faccio da elettore di sinistra. Ogni giorno cambiano tema, guardano il giornale, i social e scelgono il caso di giornata. Ma attaccarsi alla situazione del momento significa non avere capacità di programmazione, di fare opposizione vera».
Quali sono i temi forti su cui dovrebbe puntare la sinistra?
«Quelli che vanno a toccare le corde più sensibili non della popolazione delle metropoli, che già vota a sinistra, ma dell’Italia “profonda”. Da troppi anni vive il paradosso di vincere nelle zone ricche del Paese e di avere difficoltà in quelle arretrate».
Pensa che la sinistra abbia preso consapevolezza di essere diventata da “Ztl”?
«Penso di sì, si sta interrogando sul da farsi ma ancora non ha centrato la risposta giusta. Certo che se poi, quando ci sono delle eccezioni come in Campania e in Puglia, si va a parlare di cacicchi, di politica clientelare...».
Non sono l’esempio lampante della politica non delle idee, ma delle persone?
«O si dimostra che gente come De Luca o Decaro ha comprato i voti, oppure non si può chiamare cacicco chi ha governato su un territorio per anni riuscendo a tenere unita una coalizione e a ottenere consensi. Decaro alle europee ha preso mezzo milione di voti e non è che provengono dalla città dove è nato».
Non mi ha fatto l’esempio di Zaia.
«La ragione è semplice: a destra nessuno chiama Zaia cacicco perché in Veneto vince col 70% dei voti. Solo a sinistra trattano chi è forte nei territori come un rottame, come una persona opaca».
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