D’Ercole agli aquilani «La vera ricostruzione adesso tocca a noi»

Il nuovo vescovo ausiliare fa gli auguri di Natale «Dopo l’immane disgrazia rifacciamo grande la città»

Vescovo nella città del terremoto. Cosa può fare la Chiesa, cosa vuol fare don Giovanni?
«La chiesa dà supporto morale e materiale. Rianima la speranza, fa sentire la presenza di Dio che non abbandona nessuno. E lo fa non solo a parole ma con la sua presenza, offrendo aiuto. Qualche volta basta una carezza o una parola, qualche volta ci vuole qualcosa di più, un impegno per le esigenze più importanti. La Chiesa testimonia l’amore di Dio. Questo voglio fare, per questo sono stato mandato. Sono contento della fiducia data e della sfida che mi attende e ci attende. Speriamo che, insieme, potremo ricostruire L’Aquila più bella di prima».

Il Papa la manda a «riorganizzare la speranza». Molinari le assegna ampi poteri. C’è chi ha parlato di commissariamento. Qual è la verità?
«Commissario è parola fuori posto. È il contrario, è un sostegno. Faccio il braccio destro dell’arcivescovo, compiendo le cose che lui vuole realizzare. Sono l’angelo custode che lo affianca. Molinari merita rispetto. È nell’unità tra noi due che potremo guidare i sacerdoti e la Chiesa a compiere la sua missione: rianimare la speranza».

Come giudica il lavoro di Protezione civile e governo? E il ruolo delle autorità locali?
«Se debbo comparare quello che è stato compiuto in altre parti, tipo Irpinia e Belice, dico che veramente è stato profuso il massimo impegno che va riconosciuto al dottor Bertolaso e al governo. Credo sia onestà riconoscerlo. Non si possono fare miracoli. Altrove il terremoto ha colpito delle parti, qui è stato un ictus, al centro. Difficilissimo intervenire. E ci sono drammi umani dove qualsiasi soluzione è insoddisfacente. Inizia una fase importantissima, dove dobbiamo essere noi, istituzioni e popolazione, a prendere in mano il destino. Il futuro ha due aspetti: uno è la ricostruzione. Ancor più importante è il ricompattamento umano e sociale e, in terzo luogo, il lavoro: 18mila cassintegrati sono un grande punto interrogativo. Bisogna lavorare per lo sviluppo. Serve un grande progetto condiviso.

L’Aquila ha un suo futuro se riesce a essere collegata con Roma attraverso una metropolitana o ferrovia ad alta velocità. La sinergia con la capitale la può far diventare il salotto di Roma per progetti di grande tecnologia, eccellenze in vari campi, ricerca scientifica, turismo ambientale. Non dobbiamo chiuderci in localismi che non portano da nessuna parte. L’Aquila non deve vivere di assistenzialismo ma di uno sviluppo programmato e propulsivo. Mi batterò fino in fondo perché evangelizzare significa anche promozione umana e dare a tutti la possibilità di esprimere il massimo di sé. Tra un anno sogno di vedere L’Aquila proiettata al futuro, rinata e animata dalla speranza».

Quali sono, a suo parere, le priorità degli aquilani?
«La gente vuole sentirsi confortata, riacquistare fiducia. La mia presenza viene percepita così. Sono rimasto colpito e commosso dai 2500 aquilani venuti a Roma. La gente, salutandomi, diceva “ci aiuti”, “non ci lasci soli”. La prima esigenza è di riacquistare fiducia, la seconda è quella di mettersi insieme per ricostruire il tessuto sociale disgregato. Penso alle 18mila persone sulla costa che sono tante. Bisogna ridare all’Aquila la possibilità di ricostruirsi. Le case di emergenza sono di emergenza, ma gli aquilani vogliono le loro case. Una priorità importante è il lavoro, che si collega con un grande progetto che si deve elaborare insieme in tempi rapidissimi, entro 6 mesi, che saranno determinanti. Va data molta attenzione ai ragazzi. Dal punto di vista spirituale è necessario riprendere uno slancio cristiano. Nel 1700 la ricostruzione avvenne perché ci si strinse attorno alle proprie chiese e da lì si ricostruì la città. Vorrei che si rifacesse la stessa cosa. Porre Dio al centro di ogni progetto, che con lui si realizza sempre».

Tra i preti aquilani, da sempre, non mancano le divisioni. Molti si sentono abbandonati: come fare?
«Può essere vero, ma fa parte del passato. Lavorerò perché le divisioni si appianino. Io vengo da fuori, non appartengo a nessuna fazione. Per me i sacerdoti sono tutti figli e fratelli. Parlerò con ciascuno per far comprendere che se vogliamo fare una città che sia una comunità dobbiamo cominciare da noi, ad accettarci e a lavorare insieme. C’è chi si è sentito abbandonato? Può anche essere. Ma io vengo per loro: al primo posto i sacerdoti, possono chiamarmi notte e giorno. Chiedo ai preti l’impegno a essere strumenti di unità, superando le diatribe».

Questo Natale non sarà come gli altri. Come possono viverlo gli aquilani?
«Simbolo del nostro Natale è Collemaggio, ancora da restaurare ma messa in modo da poterci celebrare la messa. L’Aquila è ancora a pezzi ma qualcosa cambia e deve cambiare dentro di noi. Nel nostro territorio non dobbiamo aspettarci che altri ci aiutino. Occorre darci una mano, ricostruire insieme. Dalla mentalità dell’emergenza passiamo all’impegno della ricostruzione responsabile, coraggiosa e audace».

Il 6 aprile è finito tutto. Oppure è cominciato tutto?
«È stata una grande disgrazia, ma a volte, nella storia, le grandi disgrazie sono state occasioni per grandi rinascite. Il 6 aprile non è finito tutto. Si è rotta la città, ma è stata offerta a tutti noi la possibilità di ricostruire L’Aquila del terzo millennio».