Mancini, il procuratore del tribunale per i minorenni: «A 14 anni consapevoli, vivono senza freni inibitori»

Allarme alcol e droga. Nostra intervista a David Mancini: «Il fenomeno dilaga tra i giovanissimi. Famiglie in difficoltà»
PESCARA. Giovani «con enormi potenzialità, superiori a quelle che avevamo noi ai tempi», ma che sono «molto più esposti ai rischi». È il giudizio, onesto, di chi ha esperienza pluridecennale con la criminalità giovanile. David Mancini è il procuratore della Repubblica del tribunale per i minorenni dell’Aquila. Nei suoi tanti anni di indagini ha scavato a fondo nella vita di questi ragazzi, scoprendo quei «pezzi di sé che spesso sono oscuri a famiglie e scuole». Mancini evita i giudizi tranchant, il suo sguardo si focalizza sui nuovi fenomeni del disagio giovanile che, come dimostrano gli ultimi casi di cronaca abruzzese – a partire da quello di violenza sessuale su una 12enne a Sulmona – coinvolgono sempre più piccoli. Con la fiducia di chi rappresenta e crede nelle istituzioni, vede nella detenzione uno strumento – e non un fine – fondamentale per «recuperare questi ragazzi alle prese con un grande senso di vuoto».
Dottor Mancini, gli ultimi casi di cronaca sembrano descrivere una regione alle prese con un disagio giovanile sempre più acuto. Lei, che può contare su un’esperienza pluridecennale, ha notato un aumento dei casi negli ultimi anni?
«Mi chiedo sempre se c’è stato un aumento dei casi o c’è semplicemente maggiore attenzione sul tema. E quindi si vede ciò che prima era nascosto. Ma, al di là di questo, è indubbio che negli ultimi anni si avverta un maggiore allarme, causato soprattutto dal consumo indiscriminato di alcol e stupefacenti, che dilaga tra i giovanissimi».
Si è abbassata l’età media di chi abusa di queste sostanze?
«Sì, in maniera evidente. Il fenomeno è così diffuso che ormai non è neanche più definibile come trasgressivo».
È un discorso che vale solo per alcol e stupefacenti?
«No, vale per tutti questi fenomeni. La società impone a questi ragazzi di diventare grandi da subito, molto prima del tempo, scatenando un senso di impotenza, di insoddisfazione che li fa sentire persi. Da questa sofferenza nascono quei meccanismi che portano ad atti di autolesionismo».
Questa è una generazione di ragazzi deboli?
«È una generazione dotata di immense capacità, nettamente superiori a quelle che avevamo noi ai tempi. Non mi convince chi fa il nostalgico dicendo: “Da ragazzi noi avevamo un’altra stoffa”. Non è così. Il fatto è che oggi i giovani sono esposti a una serie di rischi, a una mancanza di risposte che possono metterli in difficoltà».
Che intende con “mancanza di risposte?
«Quelle risposte che scuola e famiglia non riescono più a dare, perché non si sono adeguate ai tempi. Il mondo si è evoluto a ritmi straordinari e non sempre le istituzioni reggono il passo. La sensazione di abbandono comune a molti giovani nasce proprio da questo vuoto».
Il mondo delle nuove generazioni è plasmato dal virtuale. Nei casi che ha trattato in questi anni, quanto era rilevante questo rapporto?
«Estremamente rilevante. Non esprimo un concetto originale se dico che i ragazzi oggi vivono e comunicano sul web, con un proprio linguaggio. Abitano un mondo in cui gira di tutto. Pensiamo ai canali di messaggistica criptati come Telegram: oggi qualunque adolescente sa come comprare stupefacenti su piattaforme del genere».
Quanto è sconosciuto questo mondo per famiglie e scuola?
«Capita spesso di scoprire pezzi di vita sul web di questi ragazzi fino ad allora sconosciuti. Ma bisogna stare attenti a non criminalizzare le famiglie. È il modo in cui noi li vogliamo far crescere che impone l’uso sistematico del virtuale. A partire dalla scuola, dove molti strumenti sono stati digitalizzati. È difficile trovare un equilibrio tra il controllo del digitale e un mondo che fa sempre maggiore uso di internet e della tecnologia».
Quanto sono responsabili le famiglie dei minori colpevoli di reati gravi?
«Le famiglie hanno tante difficoltà già di per sé. Dovremmo mettere a disposizione gli strumenti necessari ad aiutare genitori e docenti che non hanno le possibilità, da soli, di controllare l’uso del web che fanno i ragazzi ed evitarne gli abusi».
Questi giovani sono figli di una certa categoria di famiglie?
«Direi di no. È chiaro che dove ci sono disagio sociale e conflittualità familiare è più probabile la comparsa di condotte illecite di minori. Ma non sono situazioni esclusive, basta vedere quante volte dietro atti di violenza, di abuso, di indiscriminato porto d’armi di minorenni ci sono dietro buone famiglie. Contesti nei quali non ti aspetteresti di trovare niente del genere».
Il caso dell’omicidio di Crox sembra la conferma della sua tesi: un crimine compiuto in maniera efferata da ragazzi di buona famiglia.
«Sì, è il caso più emblematico, anche se non l’unico. In quella vicenda non solo gli autori, ma tutto il gruppo di amici che ha assistito senza partecipare ad alcun reato apparteneva a famiglie perbene. Anche loro sono ragazzi persi, alla ricerca di motivazioni, di un senso che non trovano. E allora si rifugiano in comportamenti disfunzionali».
Ma se sono famiglie per bene, che tendenzialmente hanno fornito un’educazione, dov’è che i figli apprendono questi comportamenti?
«Non è solo il contesto sociale di disagio a influire, esistono tanti altri fattori che possono incidere. La protezione eccessiva nei confronti dei figli, il viziarli, senza mai dirli di no sono cose che possono alimentare atteggiamenti narcisistici in cui il rifiuto non viene compreso né accettato. E allora si creano quelle dinamiche che conosciamo bene».
Narcisisti con un eccessivo amor di sé, da una parte, e hikikomori che invece di amore per se stessi sono privi, dall’altra: sono questi i due estremi delle personalità disfunzionali dei giovani di oggi?
«Vederli come due estremi presuppone che in mezzo ci sia una linea retta, ma non sono sicuro sia così. Mi pare più un’esplosione di tante cose diverse. Pensiamo ai ragazzi che conoscono la vita sessuale solo attraverso i materiali pornografici e, privi di alcuna educazione sul tema, immaginano che i rapporti sessuale siano quello. Non capiscono il rifiuto perché hanno conosciuto soltanto il dominio».
Uno dei presunti aguzzini del caso di violenza sessuale a Sulmona ha 14 anni, un giovanissimo. A quest’età hanno coscienza di quello che fanno?
«Intanto le dico che ho aperto un fascicolo per divulgazione di notizie riservate, perché quando si parla di minori bisogna stare attenti a far trapelare informazioni dettagliate in grado di farli riconoscere».
Evitiamo di parlare del caso specifico.
«Tendenzialmente sono coscienti, quantomeno nel senso che possiedono la capacità di intendere e volere. E le dirò di più: penso abbiano anche la maturità per comprendere il disvalore dei loro comportamenti. Cià che manca sono i freni, la capacità di pensare “non posso farlo perché sarebbe una violazione pesantissima di quella persona, del suo corpo”».
Andrebbe abbassata l’età dell’imputabilità sotto i 14 anni?
«Mi sembra un’aberrazione. Non servirebbe a niente. Bisogna pensare a come usare gli strumenti della formazione, alla sinergia tra enti e formazioni sociali e alla reintegrazione di chi viene punito. La punizione a tutti i costi non funziona con gli adulti, figuriamoci con i minori. Fatto salvo, chiaramente, il principio per cui chi sbaglia paga».
A proposito di rieducazione e reinserimento, a breve riaprirà il carcere minorile dell’Aquila: questi istituti funzionano per il reinserimento dei giovani detenuti nella società?
«Per come sono strutturati, funzionano: ci sono educatori, psicologi, docenti e programmi appositi che permettono di imparare un lavoro. Se sono presenti tutti questi elementi, chi entra nei centri detentivi minorili esce con qualcosa in più ed è probabile che non ricada nei reati. È chiaro, però, che se mancano queste figure si creano problematiche come abbiamo visto accadere al Beccaria di Milano o da altre parti. Ma per come è stato ideato è funzionale alla rieducazione e al reinserimento. A patto, ripeto, che ci siano strutture e risorse».
E quello dell’Aquila sarà utile?
Sì, perché intanto darà al territorio un luogo dove accogliere i minori che devono scontare delle pene dopo anni in cui venivano spediti in giro per tuta Italia. Così potranno stare più vicini alle proprie famiglie. Ovviamente, vale il discorso che le facevo prima: servono le risorse, ma è così che si reinseriscono i giovani nella società».