«Due anni e 10 miliardi»

La ricetta dell’ex ministro Paolucci per i restauri.

PESCARA. «In una situazione ottimale in cui ci fossero tutte le risorse e le condizioni e fossero all’opera tutte le competenze necessarie, con 10 miliardi in due anni di tempo si può sistemare in modo efficace il centro storico dell’Aquila e di tutte le sue frazioni». Antonio Paolucci è oggi direttore dei Musei Vaticani, ma è stato ministro dei Beni culturali, soprintendente per il polo museale di Firenze e commissario in Umbria per il dopo terremoto del 1997.
E’ con un misto di realismo e ottimismo (le previsioni del ministero dei beni culturali nella tabella sopra sono di differente tenore) che Paolucci guarda al futuro dell’Aquila. Riminese, 70 anni, l’ex ministro del governo guidato da Lamberto Dini (1995-1996) ritiene che la prima cosa da fare, per mettere in moto un circolo virtuoso di iniziative, sia di riportare gli aquilani a vivere nel centro storico della loro città oggi ancora devastato dal terremoto del 6 aprile.
Come, quando e perché fare tutto questo? Paolucci lo spiega in questa intervista al Centro.

Qual è il primo problema da affrontare nel restauro in una città nelle condizioni attuali dell’Aquila?
«Di problemi ce ne sono tanti. Tutti quanti, anche nell’incontro promosso di recente da Giovanna Melandri, al quale ho partecipato nella mia veste di ex ministro dei Beni culturali, sono dell’opinione - concorda anche il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente - che la cosa, in assoluto, più importante da fare è il recupero, in termini di abitazioni, del centro storico. Lì bisogna intervenire subito, in modo anche provvisorio: il centro dell’Aquila deve tornare a essere abitabile e abitato».

Lei teme che questo obiettivo non sia perseguito in via prioritaria?
«Il pericolo di cui tutti siamo consapevoli è che le cosidette new town, meritoriamente progettate e realizzate con l’intervento del governo, si trasformino in realtà abitative stabili e che il centro storico diventi così una città fantasma, disabitata. La gente si abitua ai nuovi insediamenti e lì costruisce nuove relazioni. Bastano pochi anni per cancellare la memoria storica di una città. Gli uomini sono straordinariamente adattabili ai mutamenti. Si adattano a nuove situazioni dimenticando quelle precedenti. Le opere d’arte sono importanti ma esistono per gli uomini e le donne. Se gli uomini e le donne non ci sono più, sono accrocchi di pietre che vogliono dire poco».

Quali tempi sono ipotizzabili oggi per il recupero del centro storico e dei suoi monumenti e tesori d’arte?
«I tempi possono essere anche lunghi: l’alluvione di Firenze l’ha dimostrato. Per questo è importante che la gente torni ad abitare il centro storico, anche in maniera parziale e provvisoria. Non si deve dare l’impressione che un pezzo della città sia diventata una necropoli».

Come si fa a «spingere» la gente di nuovo nel centro storico?
«Bisogna trovare ogni escamotage. L’Aquila, mi diceva il sindaco Cialente, è stata sempre un centro di commercio e di coordinamento per le frazioni circostanti. Ebbene, quel ruolo sociale e commerciale del centro storico dell’Aquila deve essere ripristinato. L’obiettivo è questo e lo vediamo tutti molto chiaramente».

Quale è il rapporto ottimale da instaurare fra il restauro dei tesori monumentali e di arte e la ricostruzione del centro storico?
«Secondo me, prima dobbiamo mettere in sicurezza e rendere abitabili le case del centro. Sui momumenti possiamo intervenire con più calma. La gente è più importante dei monumenti. Ma bisogna stare attenti che il ripristino del centro vada fatto in modo giusto, senza radere al suolo l’esistente. A volte, bastano piccoli interventi per rendere abitabile un casa. Il rischio è che si intervenga con i caterpillar anche dove non è necessario farlo».

Il mese scorso è stata restituita restaurata l’ultima opera d’arte danneggiata dall’alluvione di Firenze del 1966: quel disastro ambientale e artistico che cosa può insegnarci sui tempi necessari al recupero del centro dell’Aquila?
«Ci ha insegnato una cosa, di cui pochi si sono corto accorti, che però ha cambiato il volto di quella città. L’alluvione ha finito col cacciare dal centro storico di Firenze gran parte degli artigiani che, con le loro botteghe, sono finiti nelle orrende, nuove periferie della città. Abbiamo visto quelle botteghe sostituite progressivamente da negozi etnici e così via. E’ talmente delicato il rapporto fra la gente e la città antica che basta un niente per manometterlo e disperdere così le persone che vi abitano».

E il terremoto del 1997 in Umbria di cui lei si è occupato?
«Sono stato commissario governativo per il restauro della basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Lì siamo riusciti a consegnare la chiesa perfettamente restaurata addirittura sei mesi prima del previsto. In presenza di finanziamenti certi e mettendo in opera le risorse dei nostri bravissimi operatori, si riescono a ottenere risultati di questo genere».

Che cosa possono fare gli aquilani, da parte loro, per rendere più veloce il restauro e il recupero del centro storico?
«Gli aquilani devono fare una cosa soprattutto. Non devono dimenticare il loro bellissimo centro storico. Sant’Agostino, le Anime Sante, San Bernardino, gli altri monumenti devono essere il loro pensiero costante. Tutti siamo grati al governo per l’impegno e l’efficienza dimostrati, ma la gente non deve dimenticare che le loro case vere stanno lì, dentro la città storica».

Chi deve decidere come e quando fare le cose?
«E’ necessario un centro unico di decisione, fornito di tutte le deroghe e le flessibilità necessarie che vanno, però, gestite con grande intelligenza. Per fortuna, avete un uomo del valore di Luciano Marchetti, come vice commissario della Protezione civile per la ricostruzione, che viene dal mondo delle soprintendenze e che è consapevole dei poteri che può esercitare, purché, però, gli siano date le risorse. La paurosa scarsità di risorse è il vero problema attuale».

Se invece queste condizioni non si verificassero?
«Se le risorse vengono date con il contagocce e se ai responsabili delle decisioni viene impedito di lavorare, non c’è futuro. Non c’è partita».