Il cappellaio, il sisma e la crisi all'Aquila: "Ho licenziato anche mia figlia"

Marino Rossi ha perso il suo negozio nel terremoto e ha aperto alla Villa: "A volte vendo solo una cinta, a volte niente"

L’AQUILA. «Giovedì 28 aprile: venduta una cinta. Venerdì 29: venduto un cappello. Sabato 30 aprile: idem. Domenica 1° maggio chiuso perché festa. Lunedì 2 il foglio delle ricevute è bianco perché non ha comprato nessuno. E se ripassi tra un paio d’ore è bianco lo stesso perché nemmeno stamattina si fermeranno clienti».

Marino Rossi, cappellaio da una vita, entra ed esce dal suo negozietto di legno di 5 metri quadrati alla villa comunale sistemando cappelli e cinture e, in bella vista come mascotte di un montanaro, il bastone di ginepro scolpito a mano. Questa mattina si è fatto tardi per varie commissioni, e chissà se nelle due ore precedenti qualche cliente si sarebbe avvicinato. Se l’incasso è magro, anche una sola persona che acquista fa la differenza. Pazienza: meglio non pensarci. C’è qualcosa di straordinario nella testardaggine che porta una persona a difendere una sua “creatura” oltre ogni evidente possibilità di andare avanti, oltre ogni ostacolo. Potrebbe trattarsi di spirito di sopravvivenza, o affezione a un sogno che non si riesce a mollare perché vi è racchiusa tutta la propria vita; fatto sta che si va avanti sperando che domani sarà un giorno migliore.

"Io vittima della crisi", ma il cappellaio prova a resistere
Marino Rossi ha perso il suo negozio nel terremoto e ha riaperto l’attività alla Villa in un negozietto di legno di cinque metri quadrati. Ma gli affari non vanno bene. «A volte vendo solo una cinta, a volte niente" (a cura di Marianna Gianforte)

È più o meno questo il pensiero che ha accompagnato il cappellaio Marino Rossi, storico commerciante di corso Federico II, in questi sette anni di post-sisma in cui ha continuato a vendere cappelli, cinte e portafogli da uomo aspettando un nuovo inizio. Tutte le sere, prima di rincasare, camminava fino al negozio inagibile e gettava uno sguardo. «Adesso non ci vado più, mi sono disamorato», dice smettendo di fare le battute di cui condisce i suoi discorsi. Il negozio è quello in cui è cresciuto imparando il mestiere. «Ho cominciato giovanissimo nell’attività che prima era di Di Sabato, cappellaio che vendeva in centro storico con la sua famiglia da 110 anni», racconta, «ho fatto il garzone di bottega per 10 anni. Con me c’era Luciana, anche lei ha avuto fino a poco tempo fa una casetta di legno vicino alla mia».

Alla chiusura di Di Sabato, i due si divisero l’attività: l’una avrebbe rilevato la parte rivolta alla clientela femminile, l’altro quella maschile. Poi Luciana è andata in pensione e la sua casetta alla villa è rimasta chiusa come diverse altre: troppo dura andare avanti con uno o due scontrini al giorno. Le casette in questione sono state concesse dal Comune alla Confcommercio all’indomani del sisma per dare un immediato ristoro ai commercianti del centro storico le cui attività erano rimaste danneggiate. Erano in 12, oggi sono al massimo quattro o cinque, ognuno con storie personali che s’intrecciano con la crisi dovuta al terremoto, a una città che non c’è più, a un mercato degli affitti inavvicinabile per chi volesse ricollocarsi in posti più convenienti dal punto di vista del flusso di clienti. «Se non riuscirò a sistemarmi altrove entro la fine di quest’anno chiuderò anche io. Andrò a vivere da mio mio figlio a Bergamo». Il nuovo ostacolo per il commerciante si chiama, ora, “sottoservizi”.

«Quel che mi ha spinto ad aspettare tanti anni era la speranza di rientrare nel mio negozio l’anno prossimo, ma con i lavori dei sottoservizi è tutto spostato al 2019. Io ne avevo 63 quando ha fatto il terremoto, ne avrò 70 a settembre: come posso aspettare ancora?», dice riponendo l’attestato «alla tenacia» che nel 2012 gli ha conferito la Confcommercio. Sì, ma come si fa con uno scontrino al giorno a essere tenaci? «Infatti mollo la presa, ho anche dovuto mandare via mia figlia che lavorava con me. Non ce la facevo più a pagarle i contributi». C’è orgoglio nel mostrare, tuttavia, il cappello Panama da donna costato 60 euro e procurato per una cliente che gliel’ha ordinato: «La merce dev’essere sempre di qualità».

E prima com’era lavorare in centro? «Ci ho campato tre figli e costruito una casa», risponde. Poi il sisma, e poi la ricostruzione, poi i sottoservizi.

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