Insulti razzisti ai parroci, è il terzo caso

La denuncia di don Luciano dopo i fatti di Assergi: «Fenomeno sottovalutato per superficialità»

L’AQUILA. Una giornata con don Josè. La timidezza, a dirla morbida, dei preti aquilani nei confronti del caso di razzismo denunciato dal loro confratello nel sacerdozio Josè Obama Abuy, apostrofato nella piazza di Assergi con epiteti ingiuriosi aggravati dall’elemento della discriminazione di tipo razziale, si sta pian piano sciogliendo. Sono tre i casi di questo tipo finora avvenuti nella diocesi aquilana. Tre i casi venuti alla luce.

Ieri mattina, intanto, un gruppo di sacerdoti ha bussato a casa del parroco di Assergi per manifestargli solidarietà. I preti gli hanno fatto compagnia anche a pranzo. Chi c’è andato e ci ha messo la faccia, come don Luciano Bacale Efua, parroco di Pianola e conterraneo di don Josè, essendo anche lui della Guinea equatoriale, non teme scomuniche episcopali.

«Ho visto Josè molto provato», racconta al Centro. «Quello che è successo è gravissimo. Nella mia esperienza non è mai accaduto. Sono stupito di come viene affrontato, magari con leggerezza e lassismo, da parte di qualcuno. Si tratta della terza volta che succede nella nostra arcidiocesi, almeno in pubblico: Don Sabas, don Gerald e don Josè. Domani forse toccherà a me. La catena va spezzata. Mi chiedo se è un fenomeno che le autorità competenti possano permettersi di sottovalutare. Bisogna intervenire con fermezza. Girare la testa dall’altra parte non risolve il problema. Ammucchiarli da una parte non risolve: i problemi poi esplodono».

E il caso Assergi era noto a tutti. «Certamente», prosegue don Luciano, «gli aquilani non sono tutti razzisti, ma le situazioni di questo tipo continuano a esistere. La vita del sacerdote è difficile ovunque, ma bisogna distinguere tra i problemi pastorali che hanno tutti i sacerdoti e quelli che avvengono a prescindere dall’ambito pastorale. Qui parliamo di razzismo vero e proprio. Guardare altrove o negare l’evidenza è pura ipocrisia. Succede ovunque: dagli stadi che si chiudono fino ad arrivare a un ministro della Repubblica che viene insultato più volte e nessuno dice nulla. Nessuno dice: noi siamo razzisti, certo. Non lo diranno nemmeno nel caso di Josè. Di lui, in questa situazione, ho ammirato il coraggio della denuncia che non è facile. È importante denunciare le ingiustizie. Non è detto che si risolve il problema, ma è un passo importante. Se di questa storia non ne avessero parlato i giornali non si sarebbe saputo». La vita dei parroci stranieri all’Aquila è dura. «Molti di noi ricevono minacce e intimidazioni e non parlano. La denuncia è stata importante, a prescindere da chi sia la colpa. Qui, infatti, si è voluta creare una confusione tra un sacerdote straniero che ha ricevuto insulti razzisti e sindacare sulla sua santità. Bisognerebbe sindacare, allora, della santità di tutti. Di che parliamo? Aggiriamo l’ostacolo? Chi riceve minacce del genere non troverà nessuno pronto ad ammetterlo, quindi nessuno è razzista e si parla solo di malintesi. C’è chi non vuole vedere. Si confonde il dispiacere per il razzismo e la negazione di questa realtà. La vicenda non può finire così. Sta prendendo una brutta piega. La questione si poteva risolvere diversamente e le persone che devono decidere, prima di arrivare a certi estremi, avrebbero potuto sentire, con un po’ di umiltà, chi conosce la situazione».©RIPRODUZIONE RISERVATA