Neofascista contro gli immigrati: «Nella borsa ho sempre il coltello»

Ecco le intercettazioni alla base della richiesta di sorveglianza speciale presentata nei confronti degli appartenenti a un gruppo eversivo. E una condannata evoca l’utilizzo di bombe a mano
L’AQUILA. «Porto sempre un coltello nella borsa. Se me ne capita uno a tiro, ti faccio vedere quello che succede». Le parole di Ornella Carolina Regina Garoli, oggi 64 anni, non sono sfoghi da bar. Sono la premessa operativa di un piano che la procura dell’Aquila, su proposta dei carabinieri della compagnia di Chieti, ha messo alla base della richiesta di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza nei confronti di sette persone. Qualche mese fa la Corte d’assise di Chieti ha chiuso il primo capitolo giudiziario condannando i vertici di Avanguardia Ordinovista, attivi fino a dicembre del 2014, a pene severe per associazione con finalità di terrorismo e incitamento all’odio razziale. Ma la storia non finisce con le sentenze. L’attenzione si sposta ora sulla pericolosità sociale attuale del gruppo.
Nelle conversazioni captate dal Ros, la donna residente a Francavilla al Mare, condannata a 5 anni e 4 mesi, non lascia margini di ambiguità sulla caccia agli immigrati: «Se mi capita di trovare qualche ferro, lo prendo se ho due lire e faccio quello che devo fare». Sono i terroristi della porta accanto, insospettabili che progettavano azioni «mordi e fuggi», una strategia di pulizia etnica che, anche a distanza di undici anni, secondo i pm motiva la necessità di misure urgenti.
Il quadro indiziario si aggrava con Emanuele Pandolfina Del Vasto, 74 anni, di Catignano, destinatario della pena più alta: 11 anni e 8 mesi. Le microspie lo registrano mentre organizza una rapina ai danni di Arturo Protino, un conoscente collezionista di armi, utilizzando un codice per nascondere la natura militare dell'operazione. La rapina diventa una «cena», i fucili da rubare sono gli «invitati». «Quella cena che eravamo in quindici... mi sa che forse è superiore a quindici», sussurra al telefono riferendosi al numero delle armi, aggiungendo dettagli sulla presenza dell’anziana madre della vittima: «Però lui non lo so forse vuole portare la mamma perché il padre gli è morto. Capito? Mo’ vive solo con la mamma e allora vorrebbe portare pure la mamma a cena». L’assalto, pianificato per finanziare il gruppo, viene sventato solo dall’intervento preventivo dei carabinieri, ma rivela la spregiudicatezza di chi era pronto a tutto pur di armare la mano dell’organizzazione.
A fare da sponda operativa c’è Franco Grespi, 63 anni, compagno della Garoli, condannato a 9 anni e mezzo. La sua voce guida gli inquirenti lungo la rotta balcanica delle armi. Residente per un periodo a Gorizia, a un passo dal confine sloveno, Grespi tratta l’acquisto di esplosivi e lanciarazzi. «Lancia, lancia tutto», spiega al telefono discutendo delle specifiche tecniche degli ordigni. Le sue intercettazioni documentano sopralluoghi mirati, come quello all’Hotel Ariminum di Montesilvano, centro di accoglienza per rifugiati, individuato come bersaglio per un’azione dimostrativa sanguinaria, dove bisognava «colpire indiscriminatamente» per la «difesa della razza».
Le motivazioni della sentenza alla base della richiesta di sorveglianza speciale evidenziano il ruolo di Marina Pellati, 60 anni, di Silvi, condannata a 7 anni e 6 mesi. La sua violenza verbale sui social network è il preludio all’azione. «Bisogna passare alle maniere forti, e buttarla giù dal suo scranno», scrive riferendosi alle istituzioni. Contro l’allora ministro Cécile Kyenge, la Pellati non usa mezzi termini: «Scimmiona putrida, io di banana ne ho una sola... va bene lo stesso se ti lancio una bella ananas?», dove l’ananas, nel gergo militare, è la bomba a mano. La sua ossessione per il terrorismo nero storico la porta a vedere nel compagno Stefano Manni una reincarnazione del terrorista Gianni Nardi: «L’ho sempre detto che in questa foto e in un’altra sono uguali! Più che cugini sembrano fratelli!». E ancora, invocando il caos: «Per scuotere la gente non bastano i discorsi, ci vogliono le bombe!».
Luigi Di Menno Di Bucchianico, 58 anni, di Lanciano, anch’egli condannato a 7 anni e mezzo, incarna l’ala paramilitare del sodalizio. Ex militare, si firma con il nickname «Settembre Nero», teorizza la creazione di comunità di sopravvivenza armate e stila la «lista rossa» dei politici da colpire. Nelle lettere sequestrate, l’esortazione è programmatica: «Abbandonare ogni tipo di comunicazione solita e utilizzare la posta cartacea. Creiamo la nostra rete di resistenza... Noi andiamo, puliamo e riconsegniamo la Nazione al Popolo».
La pericolosità del gruppo si estende a Franco La Valle, 62 anni, di Chieti, condannato a 8 anni. Le ambientali lo registrano mentre vanta il controllo di una propria cellula eversiva pronta a colpire le infrastrutture. «Qua nella zona... chi fa l’azione sono io... io c’ho già diversi uomini con me...», assicura agli altri sodali, delineando uno scenario da strategia della tensione: «Il gruppo d’azione... che dà dei colpi a livello nazionale, da nord a sud». Le sue parole evocano attentati alle linee ferroviarie per paralizzare il Paese: «Colpire l’Italia, da Milano a Reggio Calabria, con dei gruppi che agiranno in un orario prestabilito... gli si dà un segno fortissimo... che loro chiaramente sapranno che c’hanno una banda armata dietro le spalle». E sul metodo stragista è glaciale: «Se eravamo organizzati alla fine facevamo un discorso politico quanti ne sono dieci, ne ammazziamo 6 e buonanotte».
Anche la figura di Luigi Nanni, 59 anni, di Canosa Sannita, rientra nel quadro tratteggiato dagli inquirenti per la misura di prevenzione, nonostante l’assoluzione dall’accusa di terrorismo e la prescrizione per l'odio razziale. Le sue mail, indirizzate a figure storiche dell'eversione come Franco Freda, e la creazione del progetto «Ala Nera" documentano una rete di contatti che va oltre la semplice adesione ideologica. La corrispondenza con l’ideologo Rutilio Sermonti testimonia la volontà di saldare il gruppo abruzzese con i circuiti del neofascismo nazionale.
L’insieme di questi elementi, le voci registrate, i piani dettagliati per «cene» che sono rapine e «ananas» che sono bombe, costituisce la base solida su cui poggia la richiesta di sorveglianza speciale. La procura dell’Aquila e i carabinieri di Chieti mirano a disinnescare preventivamente un potenziale eversivo che, sostengono, è sempre pronto a passare dalle parole ai fatti.
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