Processo ’ndrangheta all'Aquila, assoluzione per Biasini

L’imprenditore scagionato dopo settimane passate in carcere. Ma il tribunale ha inflitto una pena di otto anni e mezzo al reggino Ielo

L’AQUILA. La Procura lo aveva definito il «cavallo di Troia» per permettere l’ingresso della ’ndrangheta negli appalti della ricostruzione, a fronte di una richiesta di sei anni e otto mesi di carcere. Ma per i giudici del tribunale non è così: Stefano Biasini è stato assolto con formula dubitativa come pure è stato scagionato un altro imputato, Antonino Vincenzo Valenti, di Reggio Calabria. Ma che ci fosse stato il tentativo di arraffare qualche appalto da parte delle cosche calabresi lo pensano gli stessi giudici che hanno assolto Biasini: Francesco Ielo, reggino anche lui, è stato invece condannato a otto anni e mezzo di carcere. Una sentenza clamorosa, dunque, a fronte delle settimane di carcere preventivo passate dal giovane imprenditore aquilano, ma che non demolisce l’impianto accusatorio del pm Fabio Picuti che, nella sua asperrima requisitoria, aveva chiesto otto anni per Ielo ma aveva invocato l’assoluzione di Valenti.

LA SENTENZA. Si è concluso ieri, dunque, dopo una battaglia giudiziaria durata sei anni, il primo processo all’Aquila su un caso di concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza (assenti in aula gli imputati) è stata letta alle 11 dal presidente del collegio, Ciro Riviezzo, affiancato da Guendalina Buccella e Marfisa Luciani. Con il verdetto è stata anche disposta la confisca di una somma in dollari sequestrata a Ielo mentre le motivazioni saranno rese note tra novanta giorni.

LE ACCUSE. Gli imputati erano accusati di essere vicini al clan Caridi-Zindato-Borghetto.Semplice il modo di operare, secondo il pm: Biasini aveva degli appalti e si serviva di operai inviati dalla Calabria con lo scopo «di introdurre il clan malavitoso che voleva prendere gli appalti per il post sisma all’Aquila. L’opera di Biasini sarebbe stata quella di aiutare la cosca in città contattando gli intermediari». Picuti ha posto l’accento sulle intercettazioni fatte dalla polizia, che ha svolto le indagini insieme alla Finanza, mettendo in evidenza come i contatti che aveva con calabresi invischiati nella malavita fossero tanti. E, a suo dire, si intuisce come ci fosse stata una certa intimità con personaggi compromettenti per via dei termini usati.

LA DIFESA. Gli avvocati Attilio Cecchini e Vincenzo Salvi (foto in alto a destra) e Amedeo Ciuffetelli (per il solo Valenti) hanno sempre battuto su un tasto e sono stati creduti: «Biasini non sapeva chi fossero i suoi interlocutori e, in un’intercettazione, si indignò di essere stato definito un gancio delle cosche». Inoltre, a loro avviso, per poter parlare di concorso esterno era necessario avere contatti con un soggetto della cosca che fosse stato condannato con sentenza passata in giudicato. Ma questa ipotesi non si è verificata.

IL COMMENTO. «La sentenza assolutoria di Biasini», hanno commentato i suoi legali, «conferma la linea costantemente osservata dalla difesa per cui non poteva trovare ingresso l’ipotesi accusatoria. Questo per due ragioni: le intercettazioni da noi valorizzate l’escludevano in modo inequivocabile; inoltre l’ingresso di Carmelo Gattuso nella società di Biasini fu frutto di una comune decisione dell’imputato di affidare la contabilità al commercialista Gattuso e non già al colluso con la ’ndrangheta. L’affidamento degli appalti Ciccozzi e Diamante alla ditta di Antonio Nicoli, assolutamente immune dai sospetti mafiosi, avvenne su indicazione di Francesco Ielo che pretese compensi per l’intermediazione per un’operazione personale del tutto svincolata da implicazioni con la ’ndrina Caridi-Zindato-Borghetto. Biasini ha agito in buona fede e gli è valso per schivare una possibile condanna».

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