Professore prigioniero in Albania, l’appello della compagna: «Sconta una detenzione che non merita»

Al Centro il racconto della docente Vanessa Castelli. E intanto il deputato D’Alfonso scrive all’ambasciatore sottolineando «l’abnormità della misura cautelare»
L’AQUILA. Decine di telefonate sono arrivate ieri mattina all’Ambasciata italiana a Tirana per chiedere notizie di Michele D’Angelo, il docente aquilano detenuto da quasi due mesi in Albania dopo il tragico incidente stradale dell’8 agosto a Fier. Sul caso è intervenuta anche la Farnesina, mentre l’Università dell’Aquila ha avviato una raccolta fondi per le spese legali, promossa all’interno del dipartimento e già sostenuta anche da docenti di altre facoltà. La comunità accademica e le istituzioni italiane invocano misure alternative a una detenzione ritenuta sproporzionata e il rientro immediato in Italia del professore.
Intanto D’Angelo, accusato di “violazione delle norme sulla circolazione” e di “abbandono del veicolo”, non può raccontare la sua versione e resta chiuso in una cella della casa circondariale di Fier. A dare voce al dolore e allo smarrimento di quei momenti è la compagna, Vanessa Castelli, anche lei docente universitaria, che quella sera era accanto a lui nella Lancia Ypsilon lungo la strada di “Qafa e Kosovicës” e che ha deciso di rompere il silenzio con un racconto toccante al Centro.
«Quella sera doveva essere una festa. Stavamo andando al matrimonio di una cara amica, con il cuore leggero e pieno di gioia. Mai avremmo immaginato che, nel giro di pochi secondi, tutto potesse cambiare». La docente racconta lo smarrimento di trovarsi in un paese straniero «con una lingua che proprio non comprendiamo, e questo ha reso ogni cosa ancora più difficile. Le parole mancavano, le spiegazioni erano confuse, e la gestione dell’incidente ci è sembrata incerta, frammentaria, disorientante. Ci siamo sentiti smarriti, vulnerabili, soli». La voce della professoressa in Farmacologia è rotta dall’emozione.
«L’incidente è avvenuto in un attimo» racconta, «stavamo svoltando lentamente, con la freccia inserita, girando sulla linea tratteggiata che indicava l’ingresso alla struttura, quando all’improvviso è arrivato un veicolo a velocità folle. Un istante, un riflesso, un gesto istintivo. Michele ha frenato. Se non lo avesse fatto, forse oggi non sarei qui a raccontare». Le immagini di quei momenti restano impresse: «Ricordo le mie mani tremare, il pallore sul volto di Michele, il suo sguardo perso, profondamente sotto choc. Eravamo scioccati, travolti da un evento che non ci ha dato il tempo di capire, di reagire, di proteggerci».
«Presi dallo choc, siamo scesi in strada a chiedere aiuto, ma nessuno si fermava. È stato un momento di profonda solitudine e smarrimento. Solo dopo, i dipendenti del ristorante vicino, e in particolare un cameriere, ci hanno rassicurato dicendoci che le persone coinvolte nell’altro veicolo erano state trasportate con l’ambulanza e che erano fuori pericolo. Quelle parole ci hanno dato un margine di respiro, un attimo di sollievo in mezzo al caos». La coppia ha atteso che le autorità andassero ad interrogarli, così come i testimoni ma non vedendo arrivare nessuno, hanno deciso di recarsi al commissariato, che però risultava chiuso già dal primo pomeriggio. «Così, il mattino seguente, sempre in totale autonomia, ci siamo condotti al commissariato per raccontare la nostra versione dei fatti».
«Entrambi siamo ancora provati dall’accaduto» prosegue, «ma ancora di più dal susseguirsi dei giorni successivi, in cui Michele ha dovuto affrontare un periodo di isolamento e difficoltà. La lingua, la distanza da casa, l’assenza dei suoi punti di riferimento hanno reso tutto più duro, più doloroso». La giovane compagna è affranta e profondamente preoccupata, ritiene che Michele «stia pagando ingiustamente una detenzione che non merita, lontano dal suo paese e dalla sua casa». «Quello che ci teniamo a dire, con il cuore, è che siamo vicini ai familiari della vittima. Michele pensa a loro ogni giorno».
Ringraziando le autorità italiane per il supporto dato e anche le autorità albanesi, la donna rivolge «un ringraziamento speciale al direttore del carcere e a tutti i dipendenti che ci hanno aiutato con umanità e rispetto». Infine l’appello: «Confidiamo che le autorità competenti possano valutare con attenzione e imparzialità quanto accaduto, affinché la verità emerga con chiarezza e giustizia venga fatta nel rispetto di tutte le persone coinvolte. Nonostante il dolore e la paura, continuiamo a credere nella giustizia, nella solidarietà e nella possibilità che anche dalle esperienze più dure possa nascere comprensione e umanità. Non smetteremo di lottare per la verità». L’Ambasciata d’Italia a Tirana e il Consolato generale a Valona «seguono con la massima attenzione» la vicenda, come riferisce la Farnesina, mantenendo «contatti costanti con i connazionali, effettuando visite in carcere e fornendo ogni necessaria assistenza».
Nei prossimi giorni potrebbe esserci un incontro, anche sulla scorta di una lettera del deputato del Pd Luciano D’Alfonso all’ambasciatore Marco Alberti in cui si sottolinea «l’abnormità della misura cautelare» e «il profilo morale» del prof, «cittadino integerrimo e membro della comunità accademica abruzzese». L’incidente, per il quale Michele D’Angelo è rinchiuso in carcere, è avvenuto l’8 agosto nella zona di Qafa e Kosovicës a Fier, e ha coinvolto la Lancia Ypsilon guidata dal professore e una Mercedes bianca condotta da un albanese di 44 anni, sospettato di aver perso il controllo del veicolo.
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