Un aquilano a servizio dei Papi in Vaticano 

Il Gentiluomo di Sua Santità si racconta: «Dagli scout ai sacri palazzi con umiltà» 

È l’unico aquilano, laico, che in Vaticano è considerato di “casa”. Negli anni ha conosciuto cardinali, di alcuni dei quali è stato ed è amico, ha avuto l’onore di “servire” Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e oggi Papa Francesco. È Gentiluomo di Sua Santità, titolo che nasce nel 1968 dopo la riforma della Curia – allora quasi una Corte – operata da Paolo VI. I Gentiluomini sono gli eredi dei Camerieri segreti di cappa e spada che figuravano già nel catalogo di Paolo IV nel 1555. Giovambattista Santucci ha 84 anni e nella sua vita, dopo la famiglia e il lavoro, ci sono stati in particolare gli scout, in cui è entrato giovanissimo e, ancora pochi giorni fa, era in prima linea durante l’incontro degli “Scout d’Europa” che si è svolto all’Aquila.
Dottor Santucci, lei è nato ed è vissuto all’Aquila, ma di dov’è originaria la sua famiglia?
«Di Navelli. Il castello, o meglio Palazzo Santucci, era una nostra proprietà e ricordo ancora con nostalgia quando, da bambino, andavo a Navelli dove avevamo – e qualcosa abbiamo ancora – terreni coltivati a olivo. Mio nonno Ernesto era avvocato e a un certo punto dovette spostarsi all’Aquila dove acquistò un palazzo che scelse perché si trovava all’angolo tra via Accursio e via Navelli. Come se avesse voluto mantenere forte e vivo il legame con le sue origini. Non solo. Quando mio padre Vittorio decise di vendere il palazzo di Navelli, lo cedette a Pasquale Santucci, personaggio noto in città anche perché è stato presidente della Provincia. Non voleva che il palazzo cambiasse nome. Nel 1980 il consiglio comunale di Navelli mi volle attribuire la cittadinanza onoraria, una cosa di cui vado fiero».
Sua madre Lidia, invece, che storia aveva?
«Mia madre era capitata per caso all’Aquila. Era infatti la figlia di Giovambattista Rivelli che è stato prefetto all’Aquila alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Lui era di Salerno, ma naturalmente doveva spostare la famiglia a seconda delle località di destinazione. Mio padre, all’epoca, era economo del Comune e frequentava la prefettura anche per motivi istituzionali. Lì conobbe mia madre. Si sposarono nel 1929 a Padova – città nella quale il prefetto Rivelli si era nel frattempo spostato – nel santuario di Sant’Antonio. Dal matrimonio è nato Ernesto, il più grande, che oggi è un Padre gesuita, poi io e infine mia sorella Annamaria».
Che ricordi ha del periodo della 2ª Guerra mondiale?
«Ho due ricordi incancellabili: il primo il bombardamento della città da parte degli alleati, l’8 dicembre 1943. Io ero ai Gesuiti, dove ho svolto tutta la mia formazione culturale e religiosa. Lì vicino, in via Andrea Bafile, finì una o più bombe: un gran frastuono. Ci portarono in un luogo sicuro. E poi l’occupazione tedesca. Un giorno vennero a casa e presero mio padre che fece appena in tempo a far nascondere mio fratello più grande. Fu deportato in Germania e tornò dopo quasi due anni, conservo le lettere che scriveva a mia madre, mi commuovo ancora a rileggerle».
I gesuiti hanno lasciato il segno su di lei?
«Certo, e in particolare perché mi avvicinarono al mondo dello scoutismo. Nell’immediato dopoguerra nacque l’Asci, associazione scout cattolici italiani. Mi ricordo ancora il giorno in cui ho fatto la promessa, era il 21 dicembre 1947. Da allora non me ne sono più staccato. Dopo circa 30 anni ci fu un breve passaggio nell’Agesci, non ci trovammo bene e io mi diedi da fare per entrare nella federazione Scout d’Europa e sono stato commissario italiano per i rapporti con la federazione francese. Gli scout sono stati una scuola di vita, una passione e ho visto crescere generazioni di aquilani. Un giorno, lavoravo già alla Carispaq, il direttore mi chiamò perché qualcuno mi aveva visto con la divisa degli scout. A quel direttore non sembrava bello che un “prestigioso” bancario se ne andasse in giro con pantaloncini corti e quant’altro. Gli risposi che io di quella divisa andavo fiero. Non me ne parlò più».
Lei, come ha già accennato, ha lavorato alla Carispaq ed è andato in pensione da capo della segreteria particolare del presidente. Che anni furono?
«La Carispaq è stata la banca per eccellenza della città. Io ho lavorato a lungo con grandi presidenti, ne ricordo uno con grande affetto, Elio Sericchi, che curava ogni minimo particolare. Avevamo persino un cerimoniale preciso quando c’erano ospiti di riguardo. Lui mi dava molta fiducia, ma me la dovevo guadagnare».
Mai tentato dalla politica?
«No, mai. Chiaramente, a causa del mio lavoro, ho conosciuto tantissimi uomini politici. Mi piace ricordarne uno in particolare: Lorenzo Natali».
Attraverso gli scout lei è entrato in contatto con molti importanti esponenti del mondo ecclesiastico».
«Ho avuto l’onore di essere amico del cardinale Corrado Bafile, fratello dell’eroe di guerra Andrea. E poi del cardinale Angelo Sodano – che conobbi quand’era ancora vescovo – segretario di Stato di Giovanni Paolo II, che mi onora ancora della sua amicizia. Ma devo dire che nel mio casale di campagna ho ospitato cardinali, vescovi, prelati, sacerdoti, ma sempre con quello spirito di servizio che avevo imparato con gli scout».
Ha avuto importanti riconoscimenti sia dalla Chiesa che dalla Repubblica italiana. Come arrivò la nomina a Gentiluomo?
«Credo che ci sia stato lo zampino del cardinale Bafile. L’ultimo Gentiluomo aquilano era stato anni prima l’avvocato Luigi Signorini Corsi. La mia nomina fu ufficializzata il 19 dicembre 1987. Io ne fui informato dall’allora arcivescovo Mario Peressin. Seppi – dopo – che prima della nomina la mia storia personale fu passata al setaccio. Non si diventa Gentiluomini per raccomandazione, non basta una segnalazione seppur autorevole, conta molto la storia familiare, quello che hai fatto e fai nella vita e i comportamenti pubblici e privati. La nomina a Gentiluomo è a vita».
Cosa fa nel concreto un Gentiluomo di Sua Santità?
«Il compito principale è quello di ricevere ambasciatori, personalità politiche, capi di Stato nei giorni in cui vanno in visita dal Papa. È il Vaticano che ci chiama, una volta ci arrivava a casa “l’Intimatio”, oggi si usa il telefono. Tutto quello che facciamo lo facciamo gratuitamente, non ci sono gettoni o rimborsi spese. Gli unici “privilegi” che abbiamo sono una macchina del Vaticano che ci viene a prendere all’albergo e – all’arrivo – il caffé che ci viene offerto dentro tazzine con lo stemma pontificio».
In Vaticano ha servito Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e oggi Francesco. Ricorda aneddoti particolari?
«Sapete tutti che Giovanni Paolo II amava le nostre montagne, il Gran Sasso in particolare dove è venuto a sciare o anche solo a passare una giornata all’aria aperta. Un giorno lo incontrai in Vaticano, si fermò, mi guardò e mi disse: beato lei che è dell’Aquila e può vedere tutti i giorni il Gran Sasso. Benedetto XVI l’ho incontrato spesso, anche dopo le dimissioni. Lui ama camminare per i giardini Vaticani e di solito va dove è stata ricostruita la grotta della Madonna di Lourdes, l’ho incrociato più volte. Papa Francesco una volta ricevette me e mia moglie dopo la messa mattutina a Santa Marta e quando seppe che ero dell’Aquila mi chiese del terremoto e di come viveva la popolazione dopo la tragedia. Tre uomini, tre personalità diverse, ma tutti e tre straordinari. Oggi, quando parliamo di Giovanni Paolo II, parliamo di un Santo, io posso dire con orgoglio di aver conosciuto un Santo».
Lei ha avuto e ha molti incarichi delicati in enti e istituzioni della Chiesa.
«La mia esperienza in banca mi ha portato a essere consultore della prefettura degli affari economici della Santa Sede, membro del cda della delegazione pontificia di Loreto e mi occupo anche dell’Istituto aquilano per il sostentamento del clero».
È cambiata la Chiesa in questi anni?
«Certo, cambiamenti ce ne sono stati. Ma per me resta un solidissimo punto di riferimento. Io sono e voglio restare un fedele e un uomo a servizio della Chiesa pur consapevole dei miei limiti umani e delle mie debolezze».
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