Barbone per un giorno primario si confonde tra i poveri di Pescara / Foto

Il direttore del Centro di salute mentale si mischia agli ospiti della mensa e del dormitorio della Caritas: "Così è possibile scoprire le radici del disagio sociale, amplificato dalla crisi. La politica investa sul sociale"

PESCARA. «Sono Giuseppe Ruzzi. Prima stavo bene economicamente, poi, ho avuto delle disgrazie finanziarie e sono stato lasciato anche da mia moglie. Adesso, sono un disperato, senza più un lavoro e senza neanche la casa». Si presenta così al cancello della Cittadella dell’accoglienza della Caritas in via Alento un altro disperato, vittima della crisi. Barba lunga e faccia sporca, pantaloni della tuta e una camicia vecchia, un paio di scarpe scolorite: conciato così, Sabatino Trotta, primario del Centro di salute mentale, non lo riconosce nessuno. Neanche i compagni della camera 8, quella in cui ha passato una notte «per provare quello che sente la gente». Non è un gioco quello di Trotta, ma un’indagine che mira a scoprire le radici del disagio sociale, a prevenire le tragedie e a favorire l’integrazione dei nuovi poveri italiani con i rifugiati politici in arrivo da Africa e Asia. «La crisi economica», spiega Trotta, «amplifica il disagio sociale e può innescare comportamenti devianti. Invece, scoprendo gli inizi delle malattie è possibile prevenire i comportamenti a rischio».

Per la sua indagine scientifica, Trotta si era presentato alla Cittadella dell’accoglienza già una volta ma con un abbigliamento normale: «Ma nessuno voleva parlare con me», racconta lo psichiatra, «invece, una volta travestito e truccato, gli ospiti della mensa e del dormitorio si sono aperti e mi hanno raccontato le loro storie. Accanto al mio posto in camera, il letto A, c’era un pescarese che per 31 anni ha fatto l’autotrasportatore, poi, all’improvviso ha perso il lavoro e si è ritrovato a vivere in macchina da tre anni e, saltuariamente, alloggia alla Cittadella dell’accoglienza. Di fronte a una storia come questa, si capisce che la rabbia può diventare incontenibile e alimentare tragedie».

Un giorno e una notte da disperato: «Volevo rendermi conto in prima persona della tipologia di utenza e tentare di identificare esordi psicopatologici». Per farlo, Trotta ha messo una parrucca, una bandana, si è fatto truccare per mostrare i segni della fatica di vivere a stenti: «È stata una delle esperienze più toccanti della mia vita», dice, «quella notte non sono riuscito a dormire: mi sono passate in testa tante cose. E una domanda: e se succedesse anche a me? Non è facile rispondere a una domanda di questo tipo: ritrovarsi senza certezze è una rottura degli schemi che può scatenare disagio psicopatologico».

E adesso? «La Cittadella dell’accoglienza è un fiore all’occhiello ma può fare un salto di qualità dotandosi di una metodologia scientifica. Per esempio, è necessario favorire l’integrazione tra gli italiani e i migrati. Il mio obiettivo è fare una convenzione e iniziare con questionari agli ospiti per identificare i campanelli d’allarme e prendere in carico i pazienti senza tenere conto delle barriere geografiche: per esempio, non possiamo rifiutare di assistere un paziente solo perché è di Bari». Ma l’esperimento di Trotta ha anche un altro fine: mandare un messaggio alla politica. «Ridurre gli investimenti sul sociale significa rinunciare a sostenere persone che attraversano una fase di difficoltà. E se non sono sostenute, il costo sociale sarà di gran lunga superiore rispetto alla spesa per il servizio. Il mondo politico deve capire che il sociale non può essere separato dalla sanità: chi deve programmare deve tenere conto anche delle nuove necessità».

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