Il processo

Bussi, i veleni ci sono stati ma mancano i colpevoli

Discarica di Bussi, scagionati i 19 vertici della Montedison

CHIETI. «Ho dato il sangue per quella fabbrica, giorno e notte. Una condanna sarebbe stata uno schiaffo morale, adesso il mio cuore batte tranquillo». Con i suoi 88 anni Nicola Sabatini era l’imputato più anziano del processo di Bussi, uno dei «vecchietti» come l’accusa e la difesa hanno chiamato i 19 alla sbarra con una media di 70 anni ora per definirli «capri espiatori» ora per indicare che l’inchiesta era diventata un calderone, con un arco temporale troppo lungo.

Sabatini, alle 17.05 di ieri, ha abbracciato Camillo Di Paolo, un altro abruzzese di Casalanguida finito nel maxi processo, il primo in Abruzzo per disastro doloso e avvelenamento delle acque. I pm avevano invocato la prima sentenza italiana per il disastro di Bussi e, invece, nell’aula Matteotti della Corte d’Assise di Chieti la storia si è ripetuta allineandosi ai recenti verdetti italiani come quello sull’eternit. Leggi la memoria del suo difensore, l'avvocato Carlo Sassi, che difende anche Santini, Vassallo e Capogrosso.

Vince la Montedison. Alle 17 in punto, dopo 5 ore di camera di consiglio, la Corte presieduta da Camillo Romandini ha letto il dispositivo: i 19 imputati, ex della Montedison, assolti dall’avvelenamento della acque perché il fatto non sussiste mentre il disastro doloso è stato derubricato in colposo, reato per cui è intervenuta la prescrizione. Tre minuti per riaprire le porte – il verdetto è stato letto a porte chiuse – nell’aula dove da un lato c’era il giubilo dei pochi imputati presenti e del battaglione di avvocati del colosso intenti a scambiarsi strette di mano, mentre dall’altro c’era il gelo delle parti civili e dei pm Anna Rita Mantini e Giuseppe Bellelli.

Effetto Thyssen? La discarica più grande d’Europa resta perché la Corte d’Assise ha riconosciuto il disastro ambientale, ma i 19 imputati non hanno avvelenato le acque né hanno avuto responsabilità individuali perché il “dolo” non è stato riconosciuto. La Montedison con la sua pletora di avvocati luminari in materia di reati ambientali ieri ha vinto perché la difesa è stata accolta in toto: non è passato il “dolo” come avevano chiesto i legali facendo riferimento alla sentenza della Cassazione della Thyssen Krupp, si è arenato il reato più grave dell’avvelenamento delle acque e quel capo d’imputazione che secondo gli avvocati – dall’ex ministro della Giustizia Paola Severino al professor Tullio Padovani fino ai pescaresi Augusto La Morgia e Tommaso Marchese – era generico, colmo di «vuoti» e affrontava un arco temporale troppo esteso, dagli anni Sessanta fino al Duemila. Ma soprattutto, come ha ripetuto all’infinito la difesa, non ci sarebbe stata la volontà di provocare un disastro né, dietro la discarica di Bussi, si sarebbe annidata una «strategia d’impresa» per inquinare.

In quella «strategia» l’accusa aveva visto il «movente» della Montedison, l’inquinamento per guadagnare soldi su cui tanto si sono spesi i due pm rimandando al mittente, ad esempio, l’arringa dell’ex ministro Severino che invece aveva detto che «la strategia d’impresa» era terreno fertile per i “processi mediatici” e non per quelli nelle aule di giustizia.

«Ostaggi, capri espiatori, vecchietti». Ostaggi, capri espiatori, vecchietti: in questi mesi di udienze accusa e difesa si sono passate le parole chiave di un processo entrato nelle case degli abruzzesi perché parlava attraverso un bene primario, l’acqua. Parole che nelle mani dell’accusa sono diventate macigni: «Voi dite che ce la prendiamo con dei vecchietti?», si domandavano i pm nella requisitoria. «E noi invece rispondiamo che abbiamo individuato le posizioni, i ruoli e le responsabilità di ciascun periodo». E invece, a essere accolta è stata la versione della difesa, l’arringa spettacolo di Padovani che aveva parlato dei vertici della Montedison come «ostaggi della procura per cui bisogna pagare il riscatto» e quelle più tecniche ma incisive dei milanesi Carlo Baccaredda Boy e Carlo Sassi che, invece, avevano posto all’attenzione dei giudici togati e popolari il vuoto normativo in materia ambientale, l’assenza di norme di tutela ambientale nel momento in cui la discarica Tre Monti era stata realizzata. Ma le difese in coro si erano spese per negare il disastro doloso. Per dire che no, non c’era stato alcun occultamento e che nessuno dei 19 imputati aveva taciuto sulle fonti di inquinamento.

«Non c’è un solo documento idoneo a rappresentare un indice da cui ricavare una spregiudicata volontà di provocare un macroscopico evento ambientale», avevano detto gli avvocati. E la sentenza ha riconosciuto che la discarica di Bussi è un sito zeppo di rifiuti tossici, ma ha detto pure che il disastro è colposo e che questo reato è stato cancellato dal tempo.

Il tempo nemico di Bussi. La discarica di Bussi è stata scoperta nel marzo 2007 e, in Corte d’Assise, il processo è arrivato solo all’inizio di quest’anno: l’udienza preliminare divisa in due fasi al tribunale di Pescara e il tentativo riuscito di ricusazione del presidente hanno frenato l’inchiesta in cui il disastro colposo è stato dichiarato prescritto. All’epoca, tra i rifiuti tossici e con le mascherine, andò un manipolo di uomini della Forestale guidato dall’allora comandante Guido Conti che, ieri, era in aula alla lettura della sentenza. Un lavoro enorme fatto di analisi e di documenti che la sentenza di ieri ha annichilito tra l’incredulità dei comitati ambientalisti.

Lo sdegno di una popolazione che aspettava un risarcimento per quelle 250mila tonnellate che sarebbero state interrate non ha trovato, nel codice, la sua sublimazione ma nelle parole dei tanti comitati ambientalisti. Legambiente ha definito la sentenza di ieri una «vergogna», l’avvocato del Wwf Tommaso Navarra ha riconosciuto un elemento positivo perché, come ha detto, «si perviene finalmente a un accertamento e questo è il dato che noi dicevamo sempre di necessità per poter arrivare poi alla bonifica» mentre Cristina Gerardis, legale dell’avvocatura dello Stato, è rimasta perplessa: «Non riesco a comprendere», ha detto, «quale grado di gravità debba avere un disastro per essere riconosciuto».

Bussi, con la sentenza di ieri, torna all’anno zero, mentre resta ancora aperta la domanda sulla bonifica.

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