Sebastiani a ruota libera: «Affari e famiglia, gioia e rimpianti. E sulla contestazione...»

Il nostro direttore Luca Telese intervista il presidente del Pescara. Passato, presente e futuro: ecco le verità del patron
Presidente Sebastiani, come entrate in questi play off?
«Noi? Con la certezza che possiamo realizzare una impresa».
Non vale, questo lo direbbe comunque.
«Ma io, oggi, non devo raccontare storie a nessuno».
In che senso?
«Alla fine di questo lungo anno, dopo un campionato bello, complesso e difficile, siamo arrivati ad un punto in cui contano solo i fatti. Siamo in corsa, ce la giochiamo».
Difficilissima sfida.
«Questa non è una semplice coda».
Cioè?
«Mercoledì, per noi, é come se fosse iniziato un nuovo mini-campionato. Con un rituale complesso, particolare, dominato dal congegno dell’eliminazione diretta. È come se si resettasse tutto».
E perché il Pescara sarebbe “messo “oggettivamente bene”?
«Per almeno due motivi. Il primo é che in questo momento siamo una squadra in ottima condizione fisica. È così per via della modalità di preparazione del mister».
In che senso? «Altri, anche bravissimi, sono arrivati fini qui con tenacia, ma ora hanno il fiatone. Le squadre di Baldini hanno un percorso, anche atletico, che consente loro di chiudere al massimo proprio in primavera. Cioè ora».
Lei mi ha parlato di un secondo motivo di fiducia.
«Abbiamo una seconda caratteristica decisiva: una panchina lunga, una rosa forte e varia».
Lei sa che molti, durante il campionato, le hanno rimproverato il contrario.
«Perché, durante questo lungo anno, abbiamo dovuto combattere con gli infortuni. Adesso anche Lonardi, che per noi é stata la prima perdita importante, è tornato. Adesso anche Merola - che ci era mancato altrettanto - è in forma smagliante. Lo avete visto che goal?».
Quindi la rosa c’è?
«É come se, svuotando l’infermeria, avessimo fatto una sessione di mercato. Per fortuna, nel momento decisivo, sono tutti disponibili».
Con altrettanta lucidità provi a dire cosa non ha funzionato nell’ultimo mese.
«Se devo essere sincero? Il fattore decisivo sono stati un numero incredibile di di errori arbitrali».
Non teme sanzioni? «É sotto gli occhi di tutti!».
Bene, però c’è stato un momento, dopo Natale, in cui il motore turbo della squadra spensierata era andato in panne. Lo ammetta.
«Senza dubbio. I ragazzi, dopo una partenza a razzo, e tante partite di calcio-champagne, aveva perso la spensieratezza del girone di andata».
Paura?
«No, mai. Hanno avvertito sulle spalle il peso della classifica. Un sentimento diverso».
E non potrebbe accadere anche nei playoff? «Guardi, anche nel momento peggiore, a noi non ci ha mai messo sotto nessuno. Nessuno».
Mi spieghi una partita-No a caso, quella con il Legnago.
«Eravamo la squadra di sempre, a mille. Poi, davanti alla porta, il minuetto: segno-io, segni-tu, poi non tira in porta nisciuno».
Non c’è un solo tifoso che in quei giorni bui non abbia detto: ah, se avessimo avuto un attaccante in più!
«L’Entella non ha l’attaccante e ha vinto il campionato. Noi abbiamo il più giovane talento d’Italia, Arena».
Daniele Sebastiani torna a sorridere. Ironico, disincantato. Determinato. Molto sereno («Le contestazioni mi mettono di buon umore»), chiaro fino alla brutalità: «Non vedo nessun principe azzurro che voglia portare qui Messi e Leao».
Cosa faceva suo padre Gioacchino?
«Era figlio di un falegname. Aveva una Officina dell’Alfa Romeo».
Lei è cresciuto lì?
«Si, ero un maniaco dell’auto. Leggevo Quattroruote fino all’ultima riga. Ancora oggi colleziono auto d’epoca. Possiedo una Alfa Romeo GT scalino. Sto ristrutturando una bellissima Giulia bianca. Amo la Giulietta Spider».
Appassionato di calcio?
«Mio padre non ha mai visto una mia partita».
E cosa le diceva?
«Brontolava: “Va’ a studiare!!!”».
E sua madre Annamaria?
«Le devo altrettanto. Assomiglio, anche fisicamente, a lei. Mio sorella invece, identica a papá».
Lei non é arrivato al professionismo.
«Ora so che non avrei mai potuto giocare per vivere».
Perché?
«Ero bravino con i piedi. Tecnicamente lo sono ancora oggi. Ma - confesso - giocavo perché mi divertivo».
E non va bene?
«Un giocatore professionista è un’altra storia. Serve l’elemento del sacrificio. A me piaceva uscire, vivere, avrei sofferto un ritiro».
Così lei lascia i campi verdi e studia economia a Pescara.
«Ho avuto la fortuna di trovare grandi maestri, come il professor Roberto Di Francesco professore di tecnica bancaria ed Economia».
Cosa ha imparato?
«Tutto, anche lo stile. Ogni volta che c’era di mezzo un commercialista, lui che era commercialista diceva: “Chiama il collega e chiedigli se possiamo accettare quel suo cliente” ».
La sua dote più grande, all’inizio?
«La fortuna. Studiavo il settore parabancario, che allora era uno strumento nuovo. Dopo solo sei mesi inizio a fare i primi leasing. Una rivoluzione».
Oggi ci sembrano una cosa normale.
«Allora era fantascienza. La pensi così: acquisisco un bene, ma il bene non è mio. Oggi pare normale, allora la gente rifiutava sdegnata: voleva la proprietà».
Perché?
«Motivi assurdi. Del tipo: io non vado in giro qui con una macchina targata “Verona”. Sono stato uno dei primi in Italia a vendere questo prodotti».
Con chi?
«Con la Innofit. Gruppo BNL, poi Fb leasing. Ero tra i primi dieci operatori del mercato, in Italia».
Nel 1987, tuttavia, apre la partita iva e si mette in proprio.
«Ho avuto la fortuna di fare il militare a Pescara. Avevo lo studio in via Puglia, la sede del genio a piazza Unione. Amavo la Tecnica bancaria, ho preso 9 al compito dell’esame. Sono arrivato subito per grazia ricevuta: e poi ho pagato subito un prezzo durissimo».
Perché?
«Di lì a poco mio padre ci lascia. Parto per andare da un cliente, ad Avezzano, e mi richiamano: “Sta male”. Giro l’auto. Arrivo che era già morto».
Rinuncia all’officina.
«Me lo diceva lui: “e che ti vieni a sporcare le mani qui?”.
Trova moglie presto.
«Luana. Anche lei abitava a Pescara Colli. Io la vedevo sull’autobus e camminavo su una ruota sola con il Ciao per farmi notare».
Innamorato o suicida? «Sognavo: “Questa me la sposo”. É accaduto».
Compra il Pescara a quarantanni, con il fratello di De Cecco, Giuseppe. Che però abbandona, in polemica. E lei prende il suo posto.
«Se De Cecco avesse fatto quello che gli avevo proposto sarebbe ancora presidente».
Lei non sarebbe in prima fila.
«Ma quello che io ho ottenuto in dieci anni - arrivando in serie A - con il suo cognome lo avremmo fatto in due».
Ha qualche rimpianto?
«Su De Cecco no. Sulla mia famiglia sì. Se ho fatto qualcosa nella vita lo devo a mia moglie, che non mi ha mai fatto avere un pensiero. Ero sempre in giro per stadi, poco presente, a casa. Nel 1992 é nata mia figlia Michela. Nel 1997 Maria Cristina».
Ha fatto i soldi con il leasing o con il Pescara?
«I soldi non li ho fatti mai. Sono stato uno che ha guadagnato bene. La storia di mio padre mi ha trasferito un senso di precarietà esistenziale».
Ho capito: più soldi con il Pescara.
«Semmai il contrario. Ho vissuto il momento magico in cui chiunque voleva comprare qualcosa, da un trattore a una bottiglia veniva da me». Perché? «Con UniCredit davamo dei prodotti che non avevano tutti».
Mi dica una cosa bella di quella stagione.
«Sceglievo io chi finanziare».
Una brutta.
«Se abbassi la guardia, e guardi il cliente come un amico sei morto».
Ha preso fregature?
«E chi non ne prende una? Però ho puntato sempre su gente in gamba. Se lei va a Roccaraso, entra nel ristorante Il tratturo, chieda di Peppino. É il proprietario e mi chiama “Padre pio”».
Perché?
«Gli ho dato la fiducia che altri gli negavano».
E poi?
«A Tollo c’è un signore l’ex professor D’Eusanio: grazie alla nostra fiducia é diventato imprenditore di successo».
E poi?
«Mi piace ricordare Metalchimica, a Cerno di Pineto, che oggi é un colosso dei contenitori plastici, dai fitofarmaci alla profumeria. Non li finanziavano».
Come mai?
«La Banca guardava gli estratti conto. Io invece vedevo già lo sviluppo e le loro capacità».
Un imprenditore che stima?
«Carlo Toto: quando gli parli ti si apre la mente. E ti trasferisce entusiasmo».
Cos’é un pescarese in Abruzzo? (Ride). «É un tipo intraprendente».
Si compiace?
«No, le racconto un modello umano: siamo spensierati e scaltri».
L’abruzzese dell’interno é diverso?
«Ha altri pregi. Gli basta ancora una stretta di mano».
Comprare il Pescara fu un affare?
«La società aveva solo debiti. Nessun bene».
Molti tifosi vorrebbero un presidente più piacione. (Sospiro).
«Tutti vorrebbero uno che si mette la sciarpa, racconta quattro cazzate e poi se ne va via».
Dicono: Sebastiani ha venduto troppo.
«Vai a vedere quanti soldi abbiamo messo nel Pescara! Ma si fa prima a contare quelli che abbiamo preso: zero. A Pescara nessuno socio ha mai preso un centesimo».
Tuttavia la odiano.
«Alcuni forse sí. Ma la maggioranza apprezza cosa sto facendo».
Quali sono i presidenti stranieri che funzionano?
«Quelli che capiscono chi tenere persone capaci di gestire. Pensa all’Atalanta. O quelli che hanno radici vere: vedi Pelligra a Catania, Rizzetto a Campobasso».
Gli altri?
«Arrivano, bruciano soldi e se ne vanno».
E quelli che odiano lei?
«Silvio Berlusconi un giorno disse: “In questo paese moriranno più di invidia che di infarto”».
Perché il primo anno in serie A andò male?
«Perché a gennaio, da quintultimi, facemmo un mercato sbagliato, invece di dare fiducia a chi ci aveva portato lì».
Zeman?
«Un maestro. Che fortuna lavorare con lui. Mi sono divertito molto. Può fare qualsiasi cosa, tranne smettere di fumare sigarette».
Le piace il presidente della Fiorentina Comisso?
«Molto. Un tipo diretto. Ha fatto il Viola Park - bellissimo - sapendo non che se lo riporta in America».
E gli stadi, in Italia?
«Noi siamo il terzo mondo del calcio».
Esempio?
«Voglio ristrutturare l’Adriatico, ma dopo sei anni di studio non riesco ancora a superare i mille vincoli».
Cos’é il Pescara oggi?
«Una squadra forte con un allenatore bravo».
Lei non si sente già arrivato?
«Non credo. Ora lascio lei e vado a cambiare la guaina sul tetto del mio impianto di paddle».
Dicono che lei venda troppi giocatori.
«Direi che sono stato bravissimo a vendere i giocatori, altrimenti saremmo già falliti. Lo farò ancora».
E la contestazione allo stadio?
«Uuhhhhh! Dura da cinque anni. Se smettessero avvertirei un vuoto».
Non scherzi.
«Gli insulti non mi toccano. Faccio il mio. Ho sempre fatto tutto per dare dignità alla squadra. Ma sono anche convinto che per andare avanti nei play off questi tifosi saranno decisivi».
E poi? (Allarga le mani).
«La curva ha diritto a contestarmi. A parte i leoni da tastiera e i matti, non mi offendo».
Lei ha scoperto - tra gli altri - Verratti, Immobile, Insigne… (Conta sulle dita). …
«E poi Quintero, Perin, Torreira, Lapadula, Caprari, Biraghi, Rafia, Zappa, Cristante, Mandragora - ieri in Conference - E Sottil! Avevo già l’occhio per i giovani, diciamo…».
Cosa le dice suo zio Veniero, 87 anni, quando dalla curva urlano: “Sebastiani Boia!”? (Risata).
«Mi giro verso di lui e gli faccio: “Vorrei capire cosa hai fatto a questa gente!”».
E lui?
«Non dice nulla e sospira».
E cosa ha di importante oltre al calcio?
«Tre nipotini Diamante cinque anni, Daniele quasi due, e Gabriele un anno e mezzo. E poi ho due generi - Alessandro e Diego - a cui voglio bene come figli. Vorrei regalare a tutti loro la serie B!».
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