«Christopher ucciso a 16 anni da ragazzini che facevano i duri», ecco le motivazioni della condanna dei due assassini

Dovranno scontare pene rispettivamente di 19 e 16 anni: «Infierito con crudeltà». Una vittima fragile, priva di tutte le condizioni favorevoli mai mancate ai suoi assassini
PESCARA. Christopher Thomas Luciani aveva soltanto 16 anni ma, quel pomeriggio di domenica 23 giugno 2024, se si fosse voltato indietro ne avrebbe trovati tanti di più: una mamma lontana, cresciuto dalla nonna a Rosciano, una parentesi in una casa famiglia in provincia di Campobasso per un guaio di droga. Era un ragazzino «privo di tutte le condizioni favorevoli mai mancate ai suoi assassini»: lui che sognava un’altra vita, si è ritrovato «vittima fragile» di due minorenni annoiati dalla realtà che l’hanno accoltellato alle spalle 25 volte e «dileggiato mentre moriva e anche dopo». In un racconto di 28 pagine, la presidente del tribunale per i minorenni dell’Aquila, Cecilia Angrisano, ripercorre la fine di Crox, ucciso da due coetanei, condannati, con il rito abbreviato, uno alla pena di 19 anni, 4 mesi e 10 giorni di reclusione e l’altro a 16 anni.
Un omicidio, nel parco Baden Powell di via Raffaello, per una questione di «rispetto»: un debito di droga mai ripagato. Sulle condanne pesano le aggravanti, a partire dalla crudeltà. «Gli imputati», recita la sentenza, «hanno direzionato i colpi tutti in zone vitali, anche mentre la vittima era a terra morente ed è certo che sebbene fossero consapevoli di aver già realizzato l’intento omicidiario abbiano continuato a infierire insistendo nell’infliggere un impressionante numero di violenti fendenti (che hanno persino contato per poi vantarsene) a cui hanno aggiunto ulteriori e diversi atti di gratuita violenza l’unico scopo di infierire crudelmente sulla vittima».
E poi i motivi futili: una vita spezzata per un debito di droga di circa 300 euro. In questa storia traspare «la discrepanza, non solo tra debito e bene della vita, ma tra il comune sentire e l’idea stessa che la violenza, per di più efferata, sia la misura di riparazione di torti veri o presunti». E ancora: «La futilità del motivo è evidente nella ricerca spasmodica di placare la propria ira per il mancato rispetto patito. Un rispetto preteso, non per tutelare una propria supremazia territoriale e ambientale nel contesto criminale, bensì per riempire la propria autostima con atteggiamenti da duro».
Sei contro uno: una spedizione punitiva. Due gli attori protagonisti; quattro, a distanza, hanno assistito alla scena. E dopo il delitto, il primo assassino ha cercato di scaricare la responsabilità sull’influenza del branco. Così il giudice: «Queste dichiarazioni sulla pressione minacciosa del gruppo, più astrattamente credibile per un membro di cartello di Medellin che per un gruppo di giovani studenti di estrazione borghese con la comune abitudine di abusare di cannabinoidi, servono piuttosto a confermare come l’assassino cerchi lucidamente in ogni modo di attribuire all’esterno la responsabilità dei suoi comportamenti che a fornire suggestioni credibili sul fatto».
E quello che domina è l’assenza di emozioni: l’assassino «non mostra alcuna credibile traccia di pentimento o quantomeno compassione per il morto che, con tono veramente formale appella “povero” sbandierando le sue buone amichevoli intenzioni esitate nel crudele agguato mortale, senza mancare di sottolineare come il suo eccesso nell’uso di cannabis fosse stato dovuto proprio all’influenza della vittima. Quella stessa vittima fragile, minorenne, priva di tutte le condizioni favorevoli mai mancate ai suoi assassini, dileggiata mentre moriva e anche dopo».
Il complice, afferma la sentenza, ha preso il coltello dopo i primi fendenti assestati dall’amico e l’ha fatto per «il fascino della violenza e la sperimentazione dell’accoltellamento, l’inebriante eccitazione di poter ferire a morte che non può ritenersi irrilevante». Ma poi si è pentito, come risvegliato dallo stordimento. «Mi sto facendo schifo», questo il messaggio affidato fin da subito a un’amica fino al «rimorso» dimostrato in udienza: «Traspare, più che una deliberata pianificazione difensiva, la descrizione delle pulsioni emotive».
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