Colagrande e le rane in un mondo senza protagonisti

Ha vinto l’Opera prima nel 2007, ora è in cinquina «Mi sento piccolo e mi godo la fortuna di esserci»

di Nicolò Menniti-Ippolito

Paolo Colagrande è al suo secondo Campiello. Con “Fideg” ha vinto l’Opera prima nel 2007, ora con “Senti le rane” (Nottetempo) è nella cinquina che conta. Emiliano, avvocato, arrivato al suo quarto romanzo, Colagrande è un gran raccontatore di storie di provincia. Lo fa con umorismo e serietà, come in questa storia di un prete più per caso che per vocazione, che viene creduto prima santo e poi si perde nell’amore.

Cominciamo dal Campiello. È la seconda volta che lo incontra. Differenze?

«Nel 2007 ero Opera Prima e turista di lusso, partecipavo fuori gara: condizione ideale, riposante. Quest’anno il libro che porto con me pesa molto di più. Il confronto con altri scrittori è un grande stimolo, ma anche una prova delicata, per via di un certo randagismo solitario, credo abbastanza comune fra chi scrive - ma in realtà sto facendo autocritica mirata - inadatto alla competizione e alle sue regole. Insomma viene naturale sentirsi piccoli o fuori posto. Ma il Campiello è un premio importante e bellissimo, bisogna godersi la fortuna di esserci».

I suoi libri hanno come tratto comune l’affabulazione. C’è una radice emiliana in questo?

«Le associazioni e le digressioni sono una specie di scenografia virtuale, creano lo sfondo alle storie, danno colore e profondità ai fatti e ai personaggi. Le storie mi piace ascoltarle così, e così mi piace raccontarle. Credo che il gusto dell’affabulazione derivi prima di tutto da un sentimento personale».

Nei suoi libri la voce che narra sembra più importante di ciò che viene narrato.

«La voce ha un nome, un’identità, ed è parte vitale della storia che racconta. È il cantastorie che dà ritmo e sostanza alla narrazione, che disegna i personaggi a suo gusto, in una visuale di parte che schiva i miti e dissolve gli ideali: in questa prospettiva bassa i cosiddetti protagonisti possono diventare caricature, come del resto siamo tutti noi se guardati con gli occhi degli altri. La voce narrante non è più importante della storia narrata ma serve a sistemarla sulla superficie terrestre, dove tutti camminano e inciampano e nessuno è protagonista: Gerasim e Sogliani, i due narratori, saltano sulla scena, come rane, per ricordare ai personaggi questa loro condizione, e rovinare un po’ la festa a tutti».

La comicità un po’ stralunata dei personaggi si mescola a una realtà anche aspra.

«Il comico è già in noi e in tutto quello che ci riguarda: produciamo comicità a getto, senza saperlo. In “Senti le rane” ogni personaggio produce comicità semplicemente vivendo il proprio dramma: Zuckermann primo fra tutti, perché la sua identità di santo si sbriciola subito alla prima prova, davanti alla malinconia e all’innamoramento. C’è un vago sentore di pianto in tutti i nostri riti quotidiani, che però, visti dalla giusta distanza, fanno ridere. In questo ridere non c’è derisione e forse neanche ironia: c’è pietas, solidarietà, condivisione di un mondo sempre in odore di tragedia ma che ci rende tutti comici».

Nella struttura del libro sembra esserci un principio di ordine che si scontra però con impossibilità di starvi dentro.

«È il tema di fondo di Gerasim e Sogliani: gli uomininon possono star chiusi dentro a un cerchio e a un quadrato come l’uomo Vitruviano; il corpo umano è un impianto viziato, dozzinale, si muove senza metodo, sempre in cerca di qualcosa che non trova o che forse non c’è. Nel modello vitruviano invece l’uomo è in stima di perfezione e vorrebbe essere misura di tutto quello che gli sta intorno. Ma è un malinteso. Togliendo questa gabbia l’uomo torna se stesso, con la sua piccolissima potenza dinamica e un controllo del corpo sempre difettoso. La narrazione non può essere espressione di un ordine che la realtà non offre».

I protagonisti sono personaggi tipici della provincia italiana: intellettuali a modo loro.

«Sogliani, Gerasim insieme al nume invisibile Paterlini, sono filosofi: le vicende di Zuckermann diventano l’occasione per ragionare ad alta voce, per superare quella malinconia che è sempre a un passo, per toccare con rassegnazione i temi del vivere. Lo sguardo di certi filosofi da sagra, ne ho conosciuti diversi, è sgrammaticato e visionario, ma anche oracolare: ascoltarli è gratificante e angoscioso allo stesso tempo».