«Condannai un mafioso, ci scriviamo lettere da 35 anni e siamo amici»

5 Aprile 2023

Il giudice Elvio Fassone, premiato dalla onlus Allegrino, si racconta «Nella vita si può cambiare, ma il destino non esiste: ognuno sceglie»

PESCARA. «Più o meno testualmente gli scrissi così: “Lei deve affrontare un periodo molto difficile, quasi insopportabile. Può resistere se ricorderà che le sono rimaste due cose che nessuno le potrà togliere: la dignità e la speranza”». A scrivere la lettera, 35 anni fa, fu il magistrato torinese Elvio Fassone; a ricevere quei fogli di carta in carcere, Salvatore, condannato all’ergastolo negli anni ’80 per reati di mafia proprio da Fassone. Da allora, tra il giudice torinese e il detenuto siciliano c’è un rapporto di corrispondenza: un patto di solidarietà. Di questa strana amicizia, il magistrato di 85 anni ha parlato nel libro “Fine pena: ora”. Il giudice sostiene il mafioso che vuole cambiare, anche se sa che non potrà mai più uscire dal carcere; da parte sua, il detenuto si impegna a essere un altro uomo. Fassone è il vincitore della 16esima edizione premio “Sì all’uomo” messo in palio dall’associazione Domenico Allegrino: un premio destinato «a figure che si sono distinte per aver curato, a proprio modo, le ferite di persone fragili, mettendo in pratica i valori dell’accoglienza e della solidarietà». E il giudice in pensione ha teso la mano quando altri l’avrebbero ritirata. Non è un gesto di folle e cieca fiducia: Fassone non ammette la scusa del destino ma dice che, dopo aver sbagliato, si può cambiare. Come? Anche con l’esempio degli altri.
Lei ha detto che era «inquieto e insoddisfatto» dopo la sentenza e per questo decise di scrivere al condannato: cosa scrisse?
«Gli scrissi: “La dignità ce l’abbiamo tutti, ed è il rispetto che è dovuto a ogni uomo in quanto tale, per il fatto stesso che è un uomo: e tocca a lei difenderla. La speranza, invece, è la convinzione che l’ultima parola non spetti soltanto alla brutalità dei fatti, ma ci sia un posto anche per la buona volontà del singolo, contro ogni evidenza: e questo è molto difficile, ma la legge lo consente, e lei deve dimostrare la sua volontà. Anzi, siccome in questa impresa è bene non essere lasciati soli, io sarò il tuo compagno se vorrai”. Salvatore raccolse l’invito: fece un patto e lo osservò. Per oltre trent’anni».
Ha detto anche che «l’uomo non è mai tutto nell’atto che compie, per orrendo che sia»: è una frase da leggere con speranza?
«Per la legge penale l’uomo è il reato che ha commesso e come tale deve essere valutato. La legge oscilla tra un minimo e massimo, ma nel caso dei reati puniti con l’ergastolo la sanzione è rigida. E tuttavia sappiamo che l’autore di un reato, per quanto grave, non è mai tutto nel gesto compiuto, per quanto orribile sia; l’autore di un gesto violento può essere capace di generosità inaspettate, il ladro incallito può soccorrere il derubato, e similmente. La legge considera queste situazioni, ma entro certi limiti: per cui nei casi di ergastolo, la flessibilità non è possibile, essa deve essere esercitata con attenzione nella fase dell’esecuzione della pena».
«L’uomo cambia col trascorrere del tempo, è plasmato dal susseguirsi dei giorni»: ma, secondo lei, si cambia in meglio o in peggio?
«È esperienza comune che il tempo trascorso modifica anche profondamente le persone, soprattutto se il periodo è lungo. Non di rado incomincia qualche volta una vera e propria revisione della vita, cioè una messa in discussione del modo di intendere la propria esistenza, il rapporto con gli altri, gli obiettivi che ci si pone. E importante in questo caso la vicinanza di una figura di riferimento, che può essere il “volontario”, il cappellano (ma ormai molti detenuti sono di religione diversa dalla nostra) o l’amico di penna. È essenziale che ci sia qualcuno di esterno al carcere che possa essere inteso dal detenuto come soggetto non facente parte formale dell’istituzione. È una felice intuizione quella di fare appello alla comunità dei cittadini perché affianchino il carcere nel sostenere coloro che prima o poi dovranno essere ammessi nella società libera».
«Nella lotteria della vita, non siamo noi a scegliere il biglietto fortunato»: il destino si subisce o si sceglie?
«Dobbiamo continuare a pensare che non esiste un destino (cioè il fato, secondo gli antichi) che regge le nostre azioni e ci de-responsabilizza: non tutti coloro che sono nati dove è nato Salvatore finiscono dietro le sbarre. Certo, si può riconoscere che le grandi sventure – come un lutto, una infermità, un evento che ci privi di tutto – possono influire pesantemente sulla persona, ma sono eventi particolari, estranei alla nozione propria della scelta. Insomma, ognuno nelle sue scelte è artefice della sua fortuna. Semmai, conviene non dimenticare che quel che si suole attribuire al destino in realtà siamo noi, la società umana, a incarnarlo con i nostri comportamenti collettivi, che a poco a poco smantellano le difese e diventano modello dominante, all’insegna del “così fan tutti”».
La società odierna è ricca di reati, anche cruenti: come legge la società di questi tempi?
«Le statistiche ci dicono che i delitti cruenti non sono aumentati rispetto al passato, fatta eccezione per i femminicidi; ma è cresciuto il risalto che a essi viene dato. Ciò può essere interpretato come un sintomo della mutazione delle società moderne, cioè il passaggio dal sangue al denaro, dalla soppressione fisica alla corruzione, dall’eliminazione del nemico alla sua trasformazione in alleato. È certo un vantaggio per la comunità, ma pagato con l’indebolimento del senso civile di appartenenza».
Che cos’è l’amicizia per lei? «Cito un frammento di Emily Dickinson che vede l’amicizia dal lato di chi la riceve: “Il paradiso non è più lontano/dalla contigua stanza,/se un amico in quella stanza attenda/felicità o sventura./Quale forza è nell’anima se può/sopportare così/l’accenno d’un passo che s’accosta/l’aprirsi d’una porta”».
Si è mai pentito di quella sentenza?
«No. In questo caso si trattava di una sanzione dovuta e inevitabile per un giudice. Se tornassi a essere un magistrato, sarei costretto a ripetermi».
La funzione di rieducazione della pena in Italia è possibile?
«Ri-educare significa che l’educazione primaria, non solo scolastica, è mancata o ha fallito. Bisogna supplire a questa mancanza e ciò lo può fare sia l’istituzione sia la società esterna: tenendo presente che mai come in questo caso vale soprattutto l’esempio».