Femminicidio Lettomanoppello, i deliri dell’assassino via chat: «Sentirete le campane a morto»

Gli audio agli amici: «Faccio un macello, un neurone sta invadendo il mio cervello». Odio profondo verso le forze dell’ordine e continua sfida alle istituzioni
LETTOMANOPPELLO. «Fisicamente sto bene, ma di testa no. C’è un formicolio. Un neutrone (neurone, ndr) piccolo piccolo che sta invadendo il mio cervello». Nelle conversazioni private con gli amici, Antonio Mancini, l’uomo che ha ucciso l’ex moglie Cleria, descriveva così il tarlo che lo consumava. Un’erosione lenta, inesorabile, che per mesi ha trovato sfogo in un diario pubblico della violenza, il suo profilo Facebook, prima di esplodere in una brutale esecuzione. La sua pagina, firmata con lo pseudonimo di «Antonio Ayatollah», non era solo lo specchio di un’anima tormentata, ma l’anticamera di un delitto annunciato: una cronaca dettagliata dell’ossessione che ha trasformato il rancore in un piano di morte.
Il “neutrone” di Mancini era alimentato da una ruminazione ossessiva, un processo psicologico che lo portava a rivivere costantemente i torti, veri o presunti, che sentiva di aver subito. Si percepiva come una vittima del sistema, un uomo braccato da un destino ingiusto. Il fatto che gli avessero tolto la patente da parecchi mesi, un atto amministrativo pienamente giustificato, era diventato nella sua mente l’ennesimo torto insopportabile, l’ultima goccia che lo aveva mandato in bestia. Questa narrazione vittimistica era il filo rosso che legava la sua intera esistenza, un’ossessione che affondava le radici in un passato lontano. In un lungo post, rievocava un episodio del 1974, quando a 18 anni, incensurato, ricevette un foglio di via a Brescia solo per essersi trovato – a suo dire – vicino ad alcuni ragazzi con una “canna”.
Da allora, un odio viscerale verso le forze dell’ordine e uno Stato percepito come debole con gli altri e forte solo con lui. Anche i suoi trascorsi giudiziari venivano riletti con una contabilità distorta, che separava la colpa ammessa dalla persecuzione subita: «Ho fatto sette anni di carcere da innocente, a testa alta. E altri undici, sempre a testa alta, li ho fatti perché ho sbagliato», ripeteva, riferendosi probabilmente all’arresto per spaccio di cocaina del 2010. «Ma cosa vogliono da me?», insisteva con gli amici, in una domanda che oggi suona come una premonizione agghiacciante, «non ho ucciso nessuno». È uno schema che si ripete spesso nelle storie di cronaca nera. Chi si sente perseguitato dal mondo intero, invece di fare i conti con se stesso, finisce per scaricare ogni colpa sugli altri.
E per sentirsi forte, si costruisce una maschera, un personaggio invincibile che nella sua testa non sbaglia mai e ha sempre ragione. Per Mancini, questo alter ego era l’«Ayatollah». Ma la sua non era solo una fantasia digitale. Era una personalità che cercava attivamente lo scontro, come ammetteva lui stesso: «Avevo voglia di litigare con qualcuno, ci sono riuscito». La sua ribellione si spingeva fino alla provocazione estrema, come quando si fece fotografare in piazza con un cartello in mano: «Vendo cocaina e marijuana a prezzi scontati per necessità. Rivolgersi all’Ajatollah». Un atto di sfida teatrale contro quello stesso sistema che, a suo dire, lo perseguitava. Nelle chat private, questa grandiosità diventava ancora più grottesca: inviava video in cui ululava ai suoi cani, definendosi «il divo Ayatollah», il capobranco il cui richiamo non ammetteva disobbedienza.
In tutta la sua comunicazione, pubblica o privata, ogni post, ogni audio, era un segnale. Già nel 2023 scriveva: «Sto per esplodere», promettendo di lasciare «un segno che rimarrà alla storia». La rabbia era un tratto distintivo del suo carattere, come rispondeva a chi glielo faceva notare: «Fa parte del mio io». Le sue minacce erano dirette e senza filtri, come quando scriveva: «A tutti quelli che mi hanno augurato la morte, presto sentirete le campane a morte per un vostro familiare». Questa aggressività si riversava su chiunque entrasse nel suo mirino, incluso il suo vecchio legale: «Una z… e tre bastardi di m…, in primis il mio ex avvocato, mi hanno rovinato la vita, maledico voi e tutta la razza».
Questa auto-giustificazione gli permetteva di superare ogni confine etico, fino a definire Totò Riina «un grande uomo». La premeditazione era evidente nel post del 28 marzo, con la foto del borsone e la didascalia: «La valigia per il fine pena mai è pronta». E si faceva agghiacciante il 21 agosto, con la promessa di sfogare «tutta la rabbia accumulata in questi ultimi sei anni», accompagnata dall’emoticon di una bara. Un conto alla rovescia pubblico, scandito da minacce sempre più esplicite, come l’inquietante avvertimento: «Il silenzio è l’arma più elegante di chi ha capito tutto. Quando arriverà il mio silenzio statev accort!».
Persino la morte diventava oggetto di una sua macabra rappresentazione, come quando pubblicò un video del cimitero e la scritta: «Non c'è posto per me». E in molti, in paese, ritengono che la ex moglie sia stata solo una sorta di capro espiatorio, il bersaglio finale e simbolico di un odio che covava contro il mondo intero. Parallelamente, Mancini costruiva una narrazione pubblica di sé come paladino del popolo, un giustiziere solitario contro sedicenti sopraffazioni. La sua battaglia contro la presenza di amianto a Lettomanoppello ne è l’esempio più chiaro. «Sono pronto a farmi arrestare per protesta, sarete voi a dare spiegazioni al popolo lettese», scriveva, rivolgendosi alle autorità. Si presentava come l’unico a preoccuparsi della salute dei minori che, insisteva, erano esposti al pericolo.
Questa veste da tribuno era funzionale al suo narcisismo: gli consentiva di sentirsi legittimato nella sua rabbia, trasformando un’ossessione personale in una presunta causa civile. Persino il suo isolamento veniva romanzato, come quando raccontava di dormire nei boschi di Roccamorice con i suoi cani, avvertendo chiunque di non avvicinarsi perché «il padrone spara». Anche il suo corpo diventava uno strumento di comunicazione: non esitava a inviare agli amici immagini della sua pancia con i punti di sutura dopo un’operazione, un altro modo per esibire la sua sofferenza e rivendicare un’attenzione che sentiva di meritare.
Il «macello», a lungo promesso nelle chat private e preannunciato da una valanga di segnali pubblici, alla fine è straripato dal mondo virtuale. Si è consumato sull’asfalto di una strada di paese, in mezzo alla gente, quando la rabbia di Antonio ha armato la sua mano contro Cleria. Il formicolio al cervello, il «neutrone piccolo piccolo», ha infine trovato la sua via d’uscita, lasciando dietro di sé una scia di sangue e dolore.
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