Il Pd e la sindrome della facile vittoria

9 Febbraio 2013

 

Chiamiamola sindrome della vittoria facile. Quelli che i voti, anziché contarli scheda dopo scheda, li annunciano sui giornali e in televisione. Così il mite Bersani, quello che sbrana gli avversari solo se pronunciano l’acronimo Mps – che sta per Monti dei Paschi di Siena - comincia a dubitare: aveva confuso il successo alle primarie con la vittoria delle secondarie le quali, a dispetto del nome, sono quelle che contano. Mentre un ipercinetico Berlusconi, show dopo show, racconta di essere in corsia di sorpasso. Peccato che si voti solo tra quindici giorni. Persino il sobrio Professore ha dismesso il loden per indossare i guantoni da boxe: sport preferito, azzuffarsi verbalmente con Vendola. E nell'intervallo accarezzare un cagnolino davanti a una telecamera. Stramba campagna elettorale; comunque vada a finire, l'Italia merita qualcosa di meglio.

Da oggi intanto scatta il divieto di pubblicare sondaggi, effetto collaterale e bislacco della «par condicio», perché proprio il Cavaliere è un mago nel brandire i sondaggi: negli altri paesi sono strumento neutrale di conoscenza, qui vengono piegati alla convenienza partigiana. Comunque, piacciano a meno, i diversi sondaggi pubblicati ieri dai giornali (compreso questo) dicono che il vantaggio del centrosinistra sul centrodestra varia dai 5 ai 7 punti percentuali, in calo rispetto alle rilevazioni di gennaio. Sufficiente per vincere, forse; inadeguato per governare. Con Monti che non si smuove, anzi in più di un test sorpassato dal Movimento 5 Stelle. Tendenze comprensibili.

Grillo con la sua istrionesca campagna tra la gente intercetta un malessere diffuso, pesca nell'area degli indecisi e tra i delusi del berlusconismo, spopola tra i giovanissimi cresciuti tra social network e scandali politici. Il grillismo è rottura. In un paese rotto. Chiaramente incapace di governare, ormai si sa, è Berlusconi ma in campagna elettorale resta insuperabile nello spacciare illusioni. Non crede nella vittoria ma, secondo l'analisi del "Foglio", punta a una sconfitta onorevole che gli consenta comunque di essere determinante nel prossimo Parlamento. Per tutelare se stesso e i suoi beni.

È finito nella palude delle alleanze variabili il premier uscente. Un po' con Bersani ma senza Vendola. Forse con il Pdl ma senza Berlusconi. Intanto si tiene Fini e Casini, ma mai tutti e tre insieme ché è meglio non ricordare il patto che li unisce. Peccato, da Mario Monti può ancora venire uno sforzo di verità sulle cose da fare. Federare i riformatori, sì. Ma per quali riforme?

Per ultimo, Bersani. Perché rischia di vincere. Senza convincere. Si è imposto uno stile da leader responsabile. Non vuol raccontare favole, dice. Giusto. Quando parla annuncia solo un po' di qualcosa: un po' di lavoro, un po' di sviluppo, un po' di investimenti. Sano realismo dopo mirabolanti promesse, tuttavia trasmette la sensazione di uno che si accontenta, incapace di un grande progetto di trasformazione del paese. La sinistra proprio non vuole imparare la lezione: o programmi di centinaia di pagine, irrealizzabili; o un minimalismo che non scalda i cuori. E sotto sotto un traffico per spartirsi già ora cariche e posti ministeriali.