L’ESITO DI UNA CRISI EPOCALE

21 Aprile 2013

 

Dopo 6 votazioni - poche rispetto alle 23 occorse per eleggere Giovanni Leone e alle 16 necessarie per Sandro Pertini, in pieno terrorismo e caro-prezzi argentino - l'Italia ha di nuovo un presidente della Repubblica. Per la prima volta, viene rieletto quello uscente, Giorgio Napolitano, estrema risorsa per un sistema dei partiti al collasso. Eppure in 6 sole votazioni si è consumata una crisi epocale. Se dentro l'aula si applaudiva una elezione senza altri «franchi tiratori», fuori, davanti a Montecitorio, la folla urlava la propria rabbia scandendo «Ro-do-tà, Ro-do-tà» il nome del giurista (a lungo deputato della Sinistra Indipendente e comunque vicino al Pd) divenuto il simbolo di un possibile incisivo cambiamento. Bersani era rimasto, sul nome di Prodi, due volte spiazzato: all'interno dalla clamorosa e organizzata «congiura» di un centinaio di «franchi tiratori»; all'esterno, dalla mancanza di una qualunque «sponda», oltre Sel, su uno dei pochi italiani che godano di prestigio in tutto il mondo (anche in Africa e in Cina) sul piano politico-economico, cosa essenziale come l'aria all'Italia di oggi.

Gli esponenti dei partiti - salvo Sel e Grillo - e delle Regioni sono così saliti al Colle per chiedere a Napolitano (già pronto a tornare ad una agognata vita privata) un altro sacrificio in nome dell'Italia. «Una non soluzione», l'aveva definita lui stesso giorni fa. Ma, di fronte, a tanto scollamento, fra le forze politiche e fra queste ultime e il Paese, ha accettato, a 88 anni, di restare e di questo gli italiani dei più diversi orientamenti gli devono essere profondamente grati.

Chi ha vinto e chi ha perso? Ha perso Bersani che sulla candidatura Marini è scivolato in modo irrimediabile. Ha perso il Pd andato in pezzi per ragioni interne, con segretario e presidente ora dimissionari. Ha vinto Berlusconi stornando da sé il pericolo di un Prodi al Quirinale. Ha vinto Grillo che, agendo con spregiudicata violenza, ha concorso, con la candidatura Rodotà, a spaccare il Pd e a tagliare il legame fra Pd e Vendola.

Ma i problemi più impervi vengono ora. Dalle imprese, dai sindacati, dalle Regioni, dalla gente comune sale da tempo l'invocazione di un governo che governi. Bersani aveva tentato la via strettissima di un governo «di programma» minoritario che al Senato cercava in aula la maggioranza. Non gliene è stata data la possibilità. Ora la sola strada praticabile sembra un governissimo di alto profilo che abbia per programma il documento dei Saggi. Ma già sul nome di Giuliano Amato arriva il «no» secco della Lega ed è uno dei pochi, con Prodi, ad avere vaste conoscenze nel mondo internazionale della politica e dell'economia. Un candidato «tecnico» alla Cancellieri non sembra adeguato a tanto impegno e alla fitta rete di rapporti europei, atlantici, planetari. Monti non è riproponibile. Il Pd, per ora decapitato, non ha un nuovo nome dietro il quale ricompattarsi: su D'Alema pesano vecchi e nuovi sospetti, Renzi punta al premierato (e secondo alcuni - lui smentisce - con Prodi si è mostrato quanto mai disinvolto, prima lanciandolo e poi subito abbando. nandolo), Barca ha debuttato in modo strano chiedendosi, mentre Napolitano accettava, se non fosse utile votare Rodotà o Bonino, Enrico Letta è tutto da sperimentare. E poi, come verranno distribuiti ministeri e sottosegretariati? Chi «ci metterà la faccia» sui temi più impopolari? Il Pdl? Chi si prenderà la patata bollente del Lavoro dopo gli oggettivi guasti di Monti e Fornero? Insomma, il presidente c'è, ma è una riconferma sofferta.

L'intesa fra partiti latita. La folla urla e Grillo la eccita gridando al «colpo di Stato». Poi si ritrae. La politica sbanda, le tv esaltano, drammatizzano una «piazza» come se il Paese intero fosse in rivolta. Diamoci tutti una calmata.

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