La Pescara anni 60: quando il costume veniva dato in affitto 

Al lido “L’Adriatica” le famiglie arrivavano con le carrozze E il titolare dello stabilimento faceva anche da bagnino

PESCARA. Nella Pescara degli anni Sessanta il costume da bagno veniva dato in affitto in spiaggia: scollature caste, bretelle in cotonina e coulottes per niente sgambate che coprivano l’ombelico per le donne e calzoncini a righe o a tinta unita per gli uomini. Allo stabilimento “L’Adriatica” in pieno centro a Pescara i bagnanti arrivavano da tutto l’Abruzzo, ma spesso anche da fuori regione, viaggiando in treno, per sbrigare qualche affare in città e poi, una volta terminate le commissioni, approfittavano della bella stagione per un tuffo improvvisato al mare.
Ad accogliere i clienti, sempre con il sorriso sulle labbra e lo sguardo genuino del vecchio pescatore, c’era Arturo Baldassarre, titolare di uno degli stabilimenti più antichi della riviera, che indicava ai clienti le cabine con il tetto a punta dove cambiarsi d’abito e il balconcino quadrato sul davanti poggiato sulla sabbia dove consumavano i pasti. Prima, dal 1938, al timone dell’Adriatica c’era suo padre Augusto, poi alla guida è arrivato Arturo e, di padre in figlio, la concessione è passata a Dante e Nicola e infine ai due figli di Dante Arturo e Stefano. Arturo era il classico bagnino di una volta. Bagnino inteso come proprietario dello stabilimento: un tuttofare che si occupava della sicurezza in acqua, ma anche della sistemazione della spiaggia con ombrelloni e sedie in legno, oltre che della vendita delle bibite, immerse in una bacinella con i blocchi di ghiaccio comprati al porto, all’interno di un piccolo chioschetto.
«Il mare era libero», racconta Dante Baldassarre, 70 anni, memoria storica dell’Adriatica dopo la morte del papà Arturo nel 2012, a 92 anni, «le famiglie arrivavano al mare con le carrozze. Li chiamavamo i signorotti: venivano dalle villette del centro, dall’interno, dai Colli e qualcuno anche da Roma con il treno. I più ricchi si portavano i camerieri e si fermavano sempre a consumare qualcosa: spaghetti freschi freschi con le vongole, brodetto, pesce arrosto e seppie. Noi vendevamo le bevande fresche: aranciata, gazzosa, chinotto e poco altro. Non c’era una grande scelta. Io stavo nel chioschetto delle bibite, aiutavo mio zio per farmi regalare la gazzosa a metà giornata». La sistemazione della spiaggia era un rituale con i più grandi che portavano a spalla gli ombrelloni e i ragazzini che li aiutavano a fare i buchi nella sabbia con un palanchino di ferro. «Ogni mattina dovevamo sistemare le attrezzature di buon’ora. Pulivamo la sabbia, piantavamo gli ombrelloni e le sedie perché c’era una legge che proibiva di lasciare l’attrezzatura sull’arenile e quindi, ogni sera, dovevamo togliere tutto e sistemare sedie e ombrelloni in un casotto di legno grande circa 40 metri». «Mio zio portava dieci ombrelloni per volta», sorride Dante Baldassarre, «andavo spesso con lui, ma il mio compito era di fare i buchi con tre-quattro colpi di palanchino. Piantavamo l’ombrellone e poi coprivamo lo spazio rimanente con la sabbia. Un’operazione che dovevamo ripetere ogni giorno su tutta la spiaggia. Era una fatica enorme. C’è stato un periodo, poi, che i clienti portavano la loro attrezzatura e pagavano una piccola quota per l’affitto dello spazio. Gli sgabelli e le sedioline di legno venivano infilate negli ombrelloni, tutti diversi, e lasciate lì».
Il proprietario dello stabilimento aveva anche la responsabilità di controllare la sicurezza dei bagnanti in spiaggia e il soccorso al mare. Arturo Baldassarre è ricordato, infatti, come l’antesignano dei bagnini della riviera pescarese: tra i primi a prendere il patentino per il servizio, ha collezionato oltre venti salvataggi. «Quando mio padre gestiva la concessione», rimarca Dante, «non era obbligatorio avere il bagnino a riva. Al mare si nuotava senza reti di protezione, si era indipendenti. Ma lui credeva tantissimo in questo servizio e volle prendere il tesserino. Ebbe ragione perché, nel corso della sua vita, si è tuffato tantissime volte per soccorrere adulti e bambini: chi si sentiva male per un malore dopo pranzo, chi per qualcos’altro. Oggi, invece, il ruolo del bagnino è completamente diverso. Arrivano i ragazzi con le cooperative alla ricerca di un lavoretto per l’estate, per pagarsi gli studi o per guadagnare qualche extra, si allenano nelle piscine e hanno in genere tra i 18 e i 25 anni».
Dante, così come i suoi figli Stefano e Arturo, ha seguito le orme del papà e del nonno: una tradizione familiare trasmessa di padre in figlio che dal 1938 non si è mai interrotta ed è giunta oggi alla quarta generazione. Fondamentale è stato anche il ruolo delle donne della famiglia, da sempre al fianco dei loro uomini nell’accoglienza dei clienti e nelle altre incombenze legate alla spiaggia, ma anche nella preparazione dei piatti genuini a base di pesce nello stabilimento. A cominciare da Maria, detta “Mariona” che fondò l’attività con suo marito Augusto, passando per Albina, l’amata moglie di nonno Arturo, e infine Anna Di Davide, cuore e motore dell’Adriatica oggi al fianco di Dante e dei figli Arturo e Stefano.
«La nostra famiglia è nata al mare», spiega Dante Baldassarre, «mio padre faceva il pescatore di vongole con la sciabica, la vecchia rete da pesca a strascico. Un tempo si pescava sotto costa, invece adesso è proibito. L’acqua ribolliva per i tanti branchi di pesce azzurro, papaline, sgombri e cefali che si avvicinavano fino alla riva perché non c’erano le scogliere. Mia madre vendeva le sogliole per tutti i bambini di Pescara, la nonna invece era famosa per la trippa. Noi figli, da maggio a settembre, eravamo al mare. Ogni volta che buttavamo la sciabica in acqua si avvicinavano alcuni conoscenti e si offrivano di aiutarci a tirare su le reti che erano pesantissime e necessitavano di 4-5 persone per ogni lato. In questo modo si guadagnavano un po’ di pesce buono da riportare a casa per dare da mangiare ai figli. Allora si soffriva la fame, ma l’ambiente era più genuino e familiare, invece oggi si ha tutto e non ci si accontenta di niente».
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