NON ASPETTERAI PRIMAVERA

13 Agosto 2013

Questo racconto è tra i 15 in gara per il premio John Fante 2013. Oltre al titolo assegnato dalla giuria di qualità, sarà assegnato anche un premio dei lettori. Se vuoi far vincere questo scritto condividilo su Facebook, Twitter o Google+

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C'eravamo fermati dove Bandini padre si aveva a male a caricare carbone in casa, e poi era spuntata una lettera della suocera. Due pagine e ci sarebbe stato di nuovo Bandini figlio, che gli stava più simpatico perché si chiamava come lui. Ma era arrivata ora di cena, e così eravamo seduti a finire di mangiare intorno a quella tovaglia incerata. Una roba da mercato, che da due settimane ci contavo le frutte sopra per aspettare che la badante finisse le sue ore di pausa. Per vari motivi coprivo io quell'intermezzo serale.

Nonna passò due minuti al telefono con un'amica di famiglia qualsiasi: "Voleva sapere come stiamo", spiegò senza preamboli, e aggiunse "tutto bene" per togliere almeno il peso di una domanda al marito che faticava a camminare, e non era più in grado di alzarsi e coricarsi senza un aiuto. Scansò la rassicurazione con una smorfia di sofferenza, perché era chiaro come ben poco andasse bene. Lei sparecchiava e nonno la seguiva con lo sguardo mentre il tiggì riferiva di manifestazioni, dichiarazioni, proteste, accordi: "Ogni giorno le stesse cose", lamentò con un filo di voce, ogni giorno più estraneo a quanto succedeva fuori dal suo universo sempre più ristretto. Spensi la televisione e proposi: "Leggiamo?". In realtà leggevo solo io, in quanto lui si stancava subito. Per il compleanno che aveva passato in ospedale gli avevo preso "Aspetta primavera, Bandini" di John Fante, perché il protagonista aveva il suo stesso nome di battesimo e soprattutto perché nonno era nato in America: il padre l'aveva riportato qui che aveva tre anni, ma ci teneva a quel briciolo di americanità. Si commuoveva con tutto ciò che avesse a che fare con storie di emigranti, meglio se abruzzesi, e sentiva come gente di famiglia chiunque avesse attraversato almeno una volta l'Oceano, in un verso o nell'altro. Sbirciò la copertina: "E che dobbiamo aspettare?". Non voleva neanche sentire.

Tirò fuori una caramella, la guardò appena e la risistemò nella tasca. Fece lentamente cenno di no col capo. Gli restava solo l'orizzonte del tavolo spoglio, con John Fante e quel Bandini che si chiamava come lui in un angolo. Prese a fissare la frutta ritratta sull'incerata, come se avesse da scegliere quella buona. "Cerchi la medicina? Già l'hai presa", lo interruppe nonna. La guardò interdetto, concentrato a premere su delle ciliegie disegnate, e su una in particolare. Nonna si sentì in dovere di ripetere: "Quella non è la pasticca: l'hai già presa quella delle otto. Diglielo anche tu". Nonno scosse ancora la testa: parlava a fatica e per farsi comprendere doveva sforzarsi, come del resto chi volesse capirlo. Quando m'accostai raccolse il brandello di comunicabilità che gli lasciava la malattia che in pochi mesi l'aveva piegato e ormai vinto: "Io non sono scemo", sibilò calcando l'indice su uno dei piccoli tondi rossi con la veemenza che non gli usciva. Contò diligentemente i frutti disegnati, che erano cinque come le persone che per anni avevano vissuto in quella casa: lui, nonna, papà, zio e zia. Ricontò e coprì una ciliegia con un dito: "A primavera sono quattro".

Strinsi la sua mano e forte le mie labbra per essere sicuro che non uscisse nulla... "Sì, lo so ma non posso dirtelo... ti ripeterò anche domani che cambieremo medicine e troveremo una cura migliore... e tornerai a passeggiare nelle mattine di sole dopo aver preso il giornale con un filo d'erba in bocca dopo la prima sigaretta… Perdonami, lo sappiamo tutti e due che non è vero, ma non posso dirtelo che non aspetterai primavera".

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