Pescara, appello di una madre: «Aiutatemi a riabbracciare mia figlia»

Clandestina, Flutra Mujaxhi partorì a Pescara 22 anni fa: «Firmai una carta, non capivo una parola. E mi portarono via la bambina»

PESCARA. Da 22 anni, il pianto della sua bambina la insegue ovunque: la sveglia di notte, la costringe a voltarsi per strada, risuona in una stanza vicina alla sua. Flutra ormai lo sa che quei vagiti sono solo nella sua testa, ma non può mai fare a meno di voltarsi. «E non c’è lei. C’è solo il vuoto che mi scava l’anima».

Flutra Mujaxhi è una gentile signora albanese, oggi cittadina italiana di 50 anni, che l’11 maggio del 1995 ha partorito all’ospedale di Pescara la sua neonata: «Non me l’hanno fatta neanche prendere in braccio», racconta, «l’infermiera disse “non la puoi toccare. Guardala”. Era biondina, con gli occhi azzurri. Piangeva. Poi l’hanno portata via ed è venuto un medico che mi ha fatto firmare una carta. Io non capivo nulla, non parlavo italiano. Ho scritto il mio nome».

Probabilmente quello che Flutra ha firmato era una rinuncia legale alla figlia che rendeva la piccola adottabile. Ma lei non ne era consapevole, nessun interprete le ha spiegato nulla. Ora lei vorrebbe rivedere sua figlia: «Non voglio rovinarle la vita, ma è importante che sappia che la sua mamma non l’ha abbandonata, che la ama e la pensa ogni giorno. Vorrei sapere se sta bene, se ha dei buoni genitori, se è felice. Abbracciarla, sì vorrei tanto abbracciarla come non mi hanno fatto fare». E chiede aiuto: «Qualcuno all’ospedale o alla Casa Madre Ester che si ricordi di me, che sappia dirmi che fine ha fatto la mia bambina, qualcosa a cui aggrapp

armi. Spero che chiamino voi».

È complicata, piena di lacune di memoria e personaggi dal ruolo incomprensibile, la storia di Flutra e della sua creatura. Tutto comincia nel 1994. All’epoca gli sbarchi dall’Albania sulle coste adriatiche erano all’ordine del giorno. Lei approdò clandestina a Pescara. Aveva 27 anni. Di quel viaggio in mare sembra ricordare poco. O forse non vuole ricordare, la lingua italiana resta “straniera” per lei e confusamente racconta che c’era il padre della bimba, ma lei non sapeva di essere incinta. Lui si rivela un poco di buono, invece del lavoro promesso e di una vita insieme voleva metterla sulla strada. Lei rifiuta e viene buttata da un’auto in corsa, riportando lesioni. Ebbe delle minacce di aborto e così in ospedale scoprì di essere incinta. «Una mia amica albanese mi fece conoscere Adelia e lei mi accompagnò alla Casa Madre Ester di Scerne di Pineto». Adelia, o Delia non si capisce bene, è una figura misteriosa che si rivelerà chiave nella vicenda.

Nel centro per madri sole diretto allora da don Silvio De Annuntiis, mancato qualche anno fa, rimane fino al momento di partorire. «Ero impaurita, temevo che mi rispedissero in Albania o mi arrestassero perché non avevo documenti, ero clandestina. Ero stata portata anche in Psichiatria. Non capivo una parola». Ripete. Non rammenta di essere stata interpellata per dare la figlia in adozione. L’11 maggio del ’95 ecco le doglie e la corsa all’ospedale a Pescara. «Da questo momento Adelia non è più venuta da me», racconta, «Mia figlia è nata e io non ho potuto toccarla. Non so cosa ho firmato. Dopo 3 giorni sono stata dimessa e sono andata a casa di un’amica di Delia, a Pescara, vicino a una chiesa. Sentivo il pianto di bambini, ero scioccata, anche adesso lo sento e mi guardo intorno e penso che sia mia figlia. Non chiedevo niente nella casa, avevo tanto latte, non capivo l’italiano nè cosa stessi facendo. Piangevo sempre. Volevo scappare, avevo paura che mi rimandassero in Albania. Poi il 30 maggio sono venute delle amiche di Delia, mi hanno comprato biglietto del traghetto che da Bari mi ha riportato in Albania».

Flutra stava molto male. «Non mangiavo nulla, ero anoressica, ma volevo tornare in Italia». Un mese dopo riesce a farlo. Stavolta arriva a Milano. Finisce al San Raffaele dove la operano per i postumi delle lesioni procurate quando era stata scaraventata fuori dall’auto. Poi le scoprono un tumore, fortunatamente in fase iniziale. Così ecco i cicli di chemioterapia, la china sempre più ripida. Guarisce. Si appoggia a una comunità a Crema, poi va ad abitare a Baiano Cremasco, in provincia di Cremona. Trova un lavoro. Non torna più in Albania. «Sono sopravvissuta», dice. Nel 2004 conosce Leonardo, siciliano trapiantato al Nord, elettricista: «Pesava 40 chili quando l’ho incontrata. Stava malissimo».

La coppia da qualche tempo ha cominciato la ricerca di quella che ormai deve essere una ragazza di 22 anni. «Ho chiamato Casa Madre Ester, ho parlato con suor Cecilia, dovevo parlare con suor Pina ma non è stato possibile. Don Silvio mi venne a trovare in ospedale, ma non c’è più. Qualcuno si ricorda di me e di Delia, ma dicono che non sanno come rintracciarla, forse è a Caserta, forse a Reggio Emilia. Ho cercato su Facebook, il nome c’è, ma non mi dà l’amicizia. Un signore mi ha scritto che la conosce, ma vuole soldi per dirmi dove è. Io non ho soldi». «Ho telefonato in ospedale», racconta il marito, «ma mi hanno detto che Flutra Mujaxhi non risulta ricoverata nel maggio del 1995. Ma lei sa bene di aver partorito lì, le carte sono sparite. Per fare richiesta al Tribunale dei minori serve un avvocato, ma è costoso, non possiamo permettercelo. E poi non vorrei che mia moglie si illudesse ancora, ha sofferto tanto. Però se qualcuno la ricorda e può aiutarci può chiamare il Centro. Sarebbe un miracolo». E i miracoli a volte avvengono.

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