Premiati gli 11 testimoni dei campi di sterminio/ Foto

Medaglia del presidente Napolitano alla memoria dei sopravvissuti all’orrore nazista Riconoscimento anche a Maria Elisa Missaglia: raccontò il suo calvario agli studenti

PESCARA. L’orrore di Maria Elisa cominciò, all’età di 24 anni, con uno sciopero in una fabbrica di Lecco: «Dopo due ore arrivarono i questurini fascisti che fecero una retata arrestando i più sfortunati: 5 donne e 22 uomini. Di questi, siamo tornati in 7, 4 donne e tre uomini». Poi, la prigione a Como, a Bergamo e il campo di concentramento di Mathausen. «Vi lascio immaginare cosa è stato l’impatto con il campo di concentramento». Poi, «dopo essere stata spogliata nuda e rivestita come un pagliaccio», portata in cella, ancora in viaggio per Vienna. «La prigione di Vienna era una vera prigione», ma in confronto a quello che sarebbe venuto dopo «si poteva chiamare un posto di villeggiatura». Sì perché dopo è cominciato «il cammino della morte». Sono questi i ricordi di Maria Elisa Missaglia, sopravvissuta alla follia nazista e morta il 31 gennaio del 2002 all’età di 83 anni. Oggi, Missaglia, originaria di Lecco ma adottata da Pescara e Francavilla fin dal secondo dopoguerra, e altri 10 deportati scampati ai campi di sterminio riceveranno una medaglia d’onore alla memoria conferita dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A consegnarla ai familiari sarà il prefetto Vincenzo D’Antuono durante una cerimonia in prefettura con inizio alle 10. La medaglia è «il tributo morale dello Stato nei confronti degli italiani, militari e civili, deportati o internati nei lager nazisti durante l’ultimo conflitto mondiale». Insieme a Missaglia, il riconoscimento sarà conferito ad Antonio D’Angelo, Raffaele De Innocentiis, Giuseppe Isotti, Redento Marzola, Gabriele Paolini, Aldo Sersante, Liliana Soppa, Rocco Tieri, Tommaso Vallozza e Luigi Varrasso.

«Per dire tutto dovrei scrivere un libro», così disse Missaglia agli studenti dell’istituto d’arte Bellisario durante un incontro del 24 marzo 1999. E quel libro, 5 anni dopo quell’incontro, è diventato realtà per mano della figlia Antonella Giurastante e di un’intervista di Flavia Florindi: «76147. La mia storia». Un racconto che fa venire i brividi, ora e sempre. Strazianti i ricordi dell’ingresso ad Auschwitz: «Siamo arrivate di notte. Il primo impatto è stato con le alte fiamme dei forni crematori... la puzza di carne bruciata era impossibile da descrivere. Abbiamo passato, in un’immensa camera, il resto della notte e la mattina del giorno dopo. Si vedeva fuori un inferno di tormenta. Eravamo a 20 gradi sotto zero. Ci hanno portate nude alle docce, perquisite, rapate, spogliate di tutte le cose a noi care. Ci hanno tatuato sul braccio sinistro il numero che da quel momento è diventato il nostro nome. Era ed è tuttora, perché lo porto ancora: 76147. Abbiamo dovuto impararlo in tutte le lingue, perché se non si rispondeva subito erano fior di legnate. Poi ci hanno fatte entrare nella baracca che da quel momento sarebbe stata la nostra casa. Abbiamo ricevuto la prima razione di pane, uno schifo che non abbiamo potuto mangiare ma che poi, in seguito, è diventato una grande squisitezza. Ci serviva per non morire di fame». Giornate passate tra i morti viventi e i morti veri: «Si lavorava in mezzo a montagne di cadaveri. Al mattino e alla sera c’era il ghiaccio. Se invece c’era fango, arrivava fino alle ginocchia e non avevamo neanche la possibilità di lavarci. I cenci che ci avevano dato in dotazione erano sempre quelli, non si cambiavano mai, anche se bagnati». Disperarsi? «Era inutile piangere... Le lacrime si ghiacciavano sul viso e si soffriva di più». Botte sul corpo e ferite all’anima: «I più dolorosi sono stati gli schiaffi che ho ricevuto da una Ss che portava i guanti. Sono stati forti che quasi svenivo. E non avevo fatto niente. Un’altra volta ho preso due legnate per aver tentato di avere altra zuppa. Avevamo fame: la prima mi ha fatto sanguinare la schiena, la seconda mi ha lacerato il polso. Quando il lavoro era poco, e noi eravamo diventati troppi, allora si divertivano a farci spostare sassi grandi e pesanti molto più di noi. Oggi ce li facevano portare qua, domani li si riportavano là».

Per sfuggire alla condanna a morte, prosegue il racconto, «era proibito ammalarsi, perché anche un piccolo male portava al crematorio. La rabbia dei tedeschi per la sconfitta che avanzava veniva sfogata tutta su di noi».

Da Auschwitz a Ravensbruck con la (quasi) certezza di finire nelle camere a gas: «Il 25 aprile hanno evacuato anche questo campo. Abbiamo viaggiato nelle condizioni più disperate per 10 giorni e 10 notti. Mangiavamo quello che trovavamo: erba, radici e qualche rapa o patata. Quando qualche cavallo dei civili cadeva morto, si assaliva quella carcassa per poter avere un pezzo di carne cruda. Che schifo ripensarci, al punto che oggi anche solo l’odore della carne di cavallo mi fa sentire male. Finalmente, dopo avere patito tanto è arrivata la fine. Il 5 maggio, dopo qualche ora di riposo, abbiamo notato che la Ss di scorta era sparita. Finalmente la guerra era finita e, miracolosamente, ero ancora viva. Vestita, con tutta la spazzatura che avevo addosso, pesavo 29 chili». Una «larva umana», è la definizione di Florindi. Il calvario non era finito: «Dopo 4 mesi, finalmente, sono tornata a casa». Anche grazie a questi ricordi, oggi arriverà la medaglia d’onore alla memoria.

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