Ricatti a luci rosse al prete In aula moglie e marito: la nostra famiglia distrutta
Gli imputati, di Montesilvano, tentano di ribaltare le accuse. Lei: così mi molestò E lui: «Don Camillo mi chiedeva continuamente soldi». La sentenza il 27 febbraio
PESCARA. Tentano di ribaltare completamente il processo, Eraldo Scurti e Claudia Palma, marito e moglie di Montesilvano accusati di estorsione ai danni di un parroco, don Camillo Lancia, sottoponendosi all'esame richiesto dal collegio difensivo. Da parte offesa, vittima di una sorta di raggiro ordito da una intera famiglia (oggi sotto processo, compreso il figlio accusato solo di riciclaggio) che gli avrebbe spillato 500mila euro (secondo la parte civile 750mila), con un ricatto a luci rosse, don Camillo viene descritto dai due imputati come un molestatore seriale e come il responsabile del fallimento economico della famiglia, causato dai soldi che Scurti avrebbero prestato al parroco, senza averli indietro. Una tesi che spetterà ora al collegio giudicare fino a che punto veritiera o costruita, tanto che il pm Fabiana Rapino ha già chiesto al collegio l'acquisizione degli atti al suo ufficio per valutare la testimonianza di Palma.
Era l'udienza più attesa del processo, anche alla luce dello sbobinamento di due registrazioni fatte a suo tempo da don Camillo per dimostrare di aver foraggiato per anni la famiglia, indebitandosi con banche, familiari, amici e parrocchiani. Una trascrizione fatta da un perito dove vengono riportati anche passaggi molto scabrosi di sollecitazioni del prete alla donna che gli avrebbe mostrato qualcosa del suo corpo, dopo aver compreso che il parroco era vittima di una sbandata. Ma ieri l'imputata ha fornito ai giudici una versione diametralmente opposta.
«Dal 2008 don Camillo ha cominciato a frequentare casa nostra più assiduamente, quasi ogni giorno. Il suo è stato un modo lento di arrivare alle molestie. Ha cominciato con la mano morta e con un atteggiamento ambiguo. Insomma, mi molestava, prima verbalmente dicendomi che ero una bella donna...poi mi toccava...». Un’escalation di avances sempre più personali e spinte, secondo la donna, fino alla registrazione del marzo 2019. «Venne a casa ed era particolarmente...non so come dire. Ad un certo punto mi chiese se ero disposta a scappare con lui, diventare sua amante. Si abbassò i pantaloni, prese la mia mano e la mise...». E poi, sollecitata dai suoi difensori (Melania Navelli e Pierluigi Amoroso), spiega più nel dettaglio quelle registrazioni scabrose, alla fine giustificandosi così: «A causa di quelle vicende ho avuto problemi con mio marito perché non volevo più avere rapporti, ho sofferto d’ansia: insomma venivo molestata da don Camillo».
E alla domanda dell’avvocato Giovanni Mangia (parte civile per conto del parroco) sul perché sopportò tutto quello per tanti anni senza denunciare, la donna risponde: «Per vergogna, per paura, per i figli. Poi un giorno ho detto basta, non ce la faccio più. Ero accondiscendente per paura di uno scandalo e perché temevo che non restituisse i soldi».
Ma in quelle registrazioni don Camillo parlava anche degli oltre 400mila euro che fino ad allora aveva versato al marito, per impedire che venissero diffusi presunti video osè che lo riguardavano.
Ma proprio Scurti, durante il suo esame ha ribaltato la questione: sarebbe stato don Camillo a dover restituire a lui 440mila euro. «Don Camillo lo conosco dal ’92: mi chiedeva continuamente soldi. In quel periodo stavo bene economicamente e lui diceva che voleva allargare la chiesa e quindi chiedeva soldi».
Ma poi esce quel documento piuttosto strano, firmato da Scurti, dove lo stesso afferma di avere un debito di 500mila euro con don Camillo. «Fui costretto a farlo perché me lo chiese don Camillo, che per me era come un padre. Mi diceva di investire i soldi in una banca dello Ior che dava interessi molto alti, ma poi volle quel biglietto di debito perché la sua banca voleva sapere cosa ne faceva di quei soldi che ritirava in continuazione».
Una tesi al vaglio dei giudici. Poi spiega cosa fece il giorno che tornò a casa e vide il prete in taverna vicinissimo alla moglie, «come se volessero baciarsi. Mi sono arrabbiato, poi lui mi disse, “ma non ti fidi di me?, per me lei è come una figlia”». Poi le puntuali domande del pm sulle sue dichiarazioni dei redditi e sugli assegni di don Camillo che finivano sul conto della moglie e lì le risposte sono state piuttosto incerte.
Prossima udienza il 27 febbraio con l’esame del terzo imputato (il figlio) e la sentenza.