Dal basket ai giornali, Phil Melillo l'americano con Roseto nel cuore

Il campione dimenticato: "Sono stufo della palla a spicchi, ho comprato un'edicola, ma se gli Sharks chiamano..."

INVIATO A ROSETO. Osannato, idolatrato e dimenticato. Il basket dà, il basket toglie. Prima il trionfo, gli elogi, i fiumi di dollari e la notorietà. Un cortocircuito con il suo ultimo amore, Roseto, ha mandato in fumo la sua voglia di allenare. Phil Melillo qualche anno fa finiva sulle prime pagine dei giornali, ora li vende. Ha smesso col basket e ha rilevato una bella edicola, grande e al centro di Roseto. Classe 1952, fisico asciutto da atleta, l’allenatore del “Roseto dei miracoli”, quello della promozione in A1 e i tanti campionati disputati nella massima serie e della Uleb Cup, si racconta al Centro.

«Sono a Roseto dal 1998 e sono felice. È un posto di mare, l'entusiasmo dei tifosi è impressionante e si vive bene. Quando sono arrivato, in ogni angolo della città si parlava di basket. Venivo da Forlì dove avevo fatto bene e la gente accorreva in massa al palazzetto, ma qui c'erano 6-700 persone a vedere gli allenamenti, pazzesco. Qui si mangia pane e basket».

Non le manca il basket?

«No, ma poi ne parliamo».

Lei ha allenato il Roseto dal 1998 al 2001, poi nel 2003 e nel 2013, come è nata la storia d’amore con questa città?

«Michele Martinelli, che era il presidente del Roseto, mi chiamò nel 1998 per allenare. Rimasi sorpreso perché avrei preso il posto di Tony Trullo, rosetano doc, che aveva vinto un campionato straordinario. Martinelli mi convinse e poi sapete cosa abbiamo fatto in quegli anni. Martinelli è stato il miglior presidente di sempre perché non si accontentava mai. Mi portava sempre giocatori su giocatori da provare e spesso mi ritrovavo con 20 ragazzi da allenare. Dopo quella promozione in A rimase solo Busca e lui mi allestì uno squadrone, con Adrian Griffin che ci lasciò per i Boston Celtics, che centrò i play off. E poi l'anno seguente, nel 2000, andammo in A, con i vari Fox, Burditt, Moretti e Boni».

Ricordi?

«Fantastici. I rosetani venivano in mille in trasferta ed era come giocare in casa. Ricordo le vittorie contro Fortitudo e Treviso, le più belle. Ho sempre ricevuto tanto affetto dalla città, ma quando sono passato a Pesaro ho preso anche tanti insulti».

Il giocatore più forte che ha allenato?

«Alphonso Ford, a Pesaro, ma anche Milic a Roseto. Poi Burditt, giocatore non altissimo ma un pivot devastante a livello difensivo. Tra gli italiani dico Moretti e Boni, ma anche Attruia».

Ci racconti di Mario Boni?

«Sì, un giocatore devastante. Ha sempre avuto l'entusiasmo di un ragazzino».

Ha rimpianti nella sua carriera?

«Aver rifiutato alcune esperienze all'estero. Potevo finire in Russia, ma ho detto di no. Ho pensato alla famiglia e poi all’aspetto economico».

Segue il basket?

«Molta Nba, perché in A1 il livello si è abbassato tantissimo. C'è Milano, che pure fa fatica in Europa, e poi tutte le altre dietro. Prima non era così».

Non pensa al ritorno in panchina?

«Quest'anno potevo allenare in B, ma ho rifiutato. Io col basket ho chiuso».

Segue il campionato del Roseto?

«Certo, sta disputando un grande campionato. Dopo Virtus Bologna e Treviso ci sono gli Sharks, che con l'ingaggio di Amoroso possano andare fino in fondo ai play off».

Se dovessero andare in A1 lei tornerebbe ad allenare?

«Se mi dovessero chiamare ci tornerei, anche se la mia ultima esperienza non è stata positiva. C'era poca organizzazione».

Ha chiuso col basket da alcuni anni e ha deciso di fare tutt’altro, ad esempio vendere i giornali, perché?

«Ho scelto di aprire l'edicola perché mi ero stancato di girare l'Italia. Troppo stress. La mia famiglia stava bene qui e ho deciso di fare questo investimento».

Come è cambiata la sua quotidianità?

«All'inizio mi piaceva, visto che sono più di 6 anni che ho questa attività. Mi sveglio tutte le mattine alle 4.30 e alle 5.30 apro l'edicola e sistemo i giornali. Anche se devo essere sicero: mi sono un po' stancato e sto pensando di vendere».

Gli affari come vanno?

«Bene, non mi lamento. Le riviste si vendono, i quotidiani un po' meno».

Lei cosa legge?

«Io non sono un lettore assiduo, preferisco la tv».

Che cosa segue in tv?

«Fox News (canale americano), sono un appassionato della politica americana».

Il suo giudizio su Trump?

«Non mi reputo un repubblicano, non sono un suo estimatore, ma gli avrei votato. Negli Stati Uniti ci voleva un cambio e credo che Trump abbia vinto perché lui non è un politico di professione. La gente era stanca di quella gente. Lui non è razzista e non è contro le donne. Alcune sue idee, tipo quella sull'aborto, non mi piaccono, ma altre le condivido e mi riferisco, per esempio, all'immigrazione. E con questo non significa che io sia razzista. Il muro col Messico? Vuole farlo per l’immigrazione clandestina e il narcotraffico. Trump sta semplicemente attuando il suo programma in campagna elettorale. Vuole arginare un fenomeno, l’immigrazione clandestina, che può diventare pericolosa, come sta accadendo in Italia e in Europa Qui c’è una vera invasione».

Lei è figlio di genitori italiani emigrati nel New Jersey, ma si sente più italiano o americano?

«L'Italia è casa mia perché sono qui dal 1976, anche se mi sento ancora parecchio americano e ho nostalgia degli Stati Uniti».

Il più grande giocatore di basket chi è ?

«Micheal Jordan, anche se Lebron James è molto simile ma non ha la stessa classe» .

Il compagno di squadra che porta nel cuore?

«Joe Bryant, il papà di Kobe. Giocavamo assieme a Rieti e ricordo bene Kobe bambino che giochicchiava con noi dopo gli allenamenti».

Perché la definiscono “sergente di ferro”?

«Voglio che le regole siano rispettate. Una volta a Siena ho messo fuori squadra un americano perché arrivava tardi agli allenamenti».

©RIPRODUZIONE RISERVATA