Il figlio di Facchetti porta in scena la leggenda del Grande Torino: «Fu da esempio per l’Italia»

Suo padre era il compianto capitano dell’Inter e della Nazionale. Appuntamento sabato 11 ottobre ad Atessa con lo spettacolo dedicato ai campioni granata scomparsi a Superga nel 1949
ATESSA. Lo spettacolo di sabato ad Atessa e la presentazione del suo ultimo libro, in programma sabato 11 ottobre sono la scusa per una chiacchierata con Gianfelice Facchetti, 51 anni, figlio di Giacinto, una leggenda del calcio italiano per i suoi trascorsi nell’Inter e nella Nazionale. Un esempio, al di là delle rivalità calcistiche, prima in campo e poi dietro la scrivania. E il figlio nel mondo del padre è - in qualche modo - rimasto, prima tentando l’avventura come calciatore e poi scrivendo, interpretando e raccontando le gesta di tanti personaggi del pallone.
Facchetti, il suo cognome è stato un peso o un passepartout?
«Mille cose, nel senso che ognuno ha propria biografia e le proprie radici. Il nostro è un Paese appassionato di calcio e avere il papà che è stato bandiera e capitano dell’Inter e della Nazionale può avermi portato maggiori simpatie. Ma nel mondo del teatro, le garantisco, non c’è grande simpatia per quello del pallone. E, poi, a 51 anni ognuno è artefice del proprio destino».
Un ricordo di papà?
«Noi siamo stati fortunati, perché anche in 19 anni di assenza di Giacinto, siamo stati circondati da un ricordo che non si è mai raffreddato. L’affetto nei confronti Giacinto è stato ed è molto caloroso e spiazzante. E vedere quanto possa durare nel tempo ci rende felici. Ricordo le prima uscite di papà negli Inter club, quanto ci teneva al rapporto con i tifosi e con la gente. È uno dei motivi per cui ho accettato con entusiasmo l’invito dell’Inter club di Atessa». I suoi miti nel calcio, a parte papà, chi sono? «Quando giocavo, facevo il portiere. E tutti i portieri dell’Inter da Bordon a Zenga sono stati, di conseguenza dei miti. Poi c’è il Grande Torino (i giocatori pluricampioni d’Italia morirono in un incidente aereo il 4 maggio 1949 sul colle di Superga, ndr), uno dei miti ereditati da papà, lui aveva una sorta di venerazione per i granata morti a Superga».
Questa Inter che cosa le suggerisce?
«Io sono un tifoso ottimista per natura. Parto sempre da considerazione che si tratti di un sentimento di gratitudine. Viviamo ancora in una parte fortunata del mondo in cui ci si può permettere di dibattere di calcio. E non abbiamo altri problemi più grandi. Detto ciò, io cerco sempre la chiave positiva anche in contesti negativi. L’Inter attraversa una fase di cambiamento dopo l’addio di Inzaghi. E io ho fiducia in Chivu e nella società che ha stabilizzato la squadra nella lotta al vertice in serie A e in Europa».
Lautaro Martinez come Facchetti e Zanetti in prospettiva nerazzurra?
«I numeri e il suo modo di dedicarsi alla causa dell’Inter sono di esempio. Si tratta di un professionista esemplare».
Oggi lei che cosa fa nella vita?
«Sono un attore teatrale. Mi divido tra teatro e comunicazione. Faccio anche uno spettacolo al buio all’istituto dei ciechi. Ho rubrica al Tg3 Lombardia. E scrivo. Sono nel mondo della comunicazione».
Che cosa le ha lasciato dentro la storia del Grande Torino?
«Ho avuto la fortuna di toccarla più volte. Ho recitato nella fiction Rai nel 2004 come Bacigalupo. Lo spettacolo è la chiusura del cerchio di una ricerca e di una passione maturata negli anni. Resta la sensazione di quando il calcio riesce ad andare oltre la natura di svago. E’ diventata la squadra degli italiani, perché è riuscita a distogliere le attenzioni di un Paese dagli affanni della guerra. Il gesto di Valentino Mazzola che si rimbocca le maniche è l’emblema dell’Italia del Dopoguerra».
Perché andare sabato sera ad Atessa a vedere il suo spettacolo?
«È una storia di sport lontana dal presente. Era una squadra che aveva dieci giocatori su undici in Nazionale ed era apprezzata da tutti. Un’altra Italia, in cui era più facile andare oltre certe barriere».
Qual è la figura predominante di quella squadra?
«Rispondere Valentino Mazzola è troppo semplice. Ma la grandezza di quella squadra sta nel fatto che ci sono talmente tanti campioni e personaggi che è difficile sceglierne uno».
‘I Capitani’ è il suo libro che presenterà invece domenica ad Atessa.
«Racconto personaggi, famosi e non. Tante storie di personaggi simbolo».
Al di là della passione nerazzurra, le piace il calcio di oggi?
«Quando si va allo stadio mi piace tutto. L’atmosfera, l’attesa, lo stare insieme, il condividere la passione. Vedere il gesto atletico o tecnico, bellissimo. Il contorno non mi fa impazzire. Troppi faccendieri».
Siamo alla vigilia della sosta per le Nazionali: come giudica la situazione dell’Italia e il cammino verso i Mondiali?
«Fondamentalmente, la Nazionale non interesse più granché. Oggi tutto scivola via in maniera fisiologica. La verità nuda e cruda è questa. Poi, tutto il resto viene di conseguenza».
Viene spesso in Abruzzo?
«L’ultima volta a giugno, a Lettomanoppello, per l’inaugurazione del campo di calcio. C’ero già stato per l’intitolazione del belvedere a papà».
Se le faccio il nome di Luciano Moggi?
«Non è più una provocazione. Non mi fa né caldo né freddo. Ho già dedicato troppe energie a questa vicenda. E i conti sono chiusi».
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