serie d

L'Aquila frenata in casa dall'ultima in classifica

La partita finisce 0-0, con quelli del Città di Castello che festeggiano, a braccia alzate, la loro quasi certa retrocessione. Il Rieti capolista allunga a più 6. Tensione e squadra fischiata

L’AQUILA. Finisce con quelli del Città di Castello che festeggiano, a braccia alzate, la loro quasi certa retrocessione. E, altrettanto probabilmente, l’addio dei rossoblù alle residue speranze di agguantare il primo posto, ora distante sei lunghezze.

Nel giorno in cui escono sconfitte ben due dirette concorrenti – Arzachena e Monterosi – i rossoblù, se possibile, fanno anche peggio. Peggio, sì. Perché va bene la giornata storta, della squadra o del singolo calciatore. Va bene l’emergenza in attacco, dove tutto è sulle spalle del bomber Nohman. Va bene pure la condotta ostruzionistica degli avversari che cadono a terra come birilli e sfottono l’arbitro, e il pubblico, allacciandosi gli scarpini in continuazione oppure lamentando crampi improvvisi. Va bene tutto, insomma. Ma non riuscire a mettere paura a un manipolo di calciatori in erba, e pure in sciopero da alcuni giorni, pone seri dubbi sulle possibilità di continuare a coltivare, a dieci giornate dalla fine della fase regolare, il sogno di puntare alla promozione diretta.

I calciatori del Città di Castello, non pagati, hanno deciso di non allenarsi, ma di garantire comunque la trasferta all’Aquila. Dove sbarcano intorno alle 12,30. Il loro presidente non gliele aveva mandate a dire: «Li sistemo io». E invece ci pensano loro, a sistemare L’Aquila, bloccata dal più amaro dei pareggi casalinghi.

Una gara senza sale, altro che una di quelle undici finali di cui tutti andavano predicando in queste ultime ore. Ma siccome nulla è casuale, il nastro va riavvolto all’indietro di due settimane. Bisogna partire, cioè, dalla settimana della maldicenza alla Sant’Agnese – cui, evidentemente, in casa rossoblù hanno voluto rendere omaggio – con la contrapposizione tra Morgia e una parte della dirigenza e le accuse pubbliche e per iscritto («Volevo dimettermi», «Ma perché non l’hai fatto?» e altre amenità) che hanno svelato un clima e un ambiente tutt’altro che ideale per puntare a una promozione. Tipicità aquilana di metà campionato, alle prime nevicate. La vittoria di Lanusei aveva fatto dimenticare tutto come d’incanto. Ma a quella gara non è stato dato un seguito. Anzi.

Hai voglia a dire che la sfida col Città di Castello è di quelle da non sottovalutare. A vedere l’atteggiamento della squadra, tutto sembra tranne che si stia giocando una di quelle famose finali. L’Aquila manca di concretezza e sposta il pallone con una fatica immane. Vero che gli avversari sono tutti dietro alla linea del pallone, a difendere la porta del 18enne Cosimetti. Nel primo tempo si segnalano un’occasione sciupata al 15’ e una sbandata difensiva rossoblù al 32’ che per poco non porta in gol gli ospiti.

Nella ripresa Morgia cambia volto e modulo alla squadra, rinuncia persino a La Vista, ma senza ottenere nulla. Le soluzioni cercate sono sempre le stesse. Al 22’ salvataggio di testa di Pucci su tentativo di Ranelli che al 31’ cade in area, ma niente rigore. Al 47’ Minincleri spara fuori da pochi passi. Al fischio finale ultrà che respingono il saluto della squadra, tesserati che rispondono ai tifosi della tribuna, e altri tifosi che insultano gli steward. A proposito, non basta neppure la maglia celebrativa dei 90 anni di storia rossoblù. Che neppure su questo, cioè sulla data del 1927, c’è unanimità di vedute. Così Morgia, alla vigilia: «All’Aquila ogni cosa diventa un caso nazionale». Che abbia un po’ ragione?

©RIPRODUZIONE RISERVATA