Calcio

Lazio, scudetto e pistole: gli anni Settanta di Petrelli abruzzese per amore

30 Settembre 2025

L’ex terzino biancoceleste racconta il campionato vinto nel 1974 e la vita che gli ha fatto incontrare Rosanna e diventare cittadino di Rosciano

Un ascolano di nascita, giramondo, famoso a Roma per lo scudetto vinto con la maglia della Lazio nel 1974 e poi tanto altro. Ecco Sergio Petrelli, 81 anni, stabilitosi a Rosciano per amore di Rosanna. Galeotta fu la vacanza a Lampedusa in cui si sono conosciuti anni fa. Da tempo vivono a Rosciano, in provincia di Pescara. Un personaggio che va oltre il pallone, testimone di un’epoca calcistica che appartiene alla storia. Custode di tanti aneddoti, alcuni rivelati al Centro. Terzino d’attacco in campo, senza peli sulla lingua fuori.

Buongiorno Sergio Petrelli, che cosa ci fa in Abruzzo?

«Mi sono risposato ed eccomi qui. Mi trovavo in vacanza a Lampedusa e ho conosciuto Rosanna, il mio amore. Sono figlio di un militare e nel Dopoguerra sono stato in giro per l’Italia, addirittura in Somalia. Da alcuni anni mi sono stabilito a Rosciano».

Qual è il suo rapporto con la nostra regione?

«Ormai sono vent’anni che sono qui. Ho allenato per un paio di stagioni L’Aquila, una promozione alla fine degli anni Settanta. In Quarta serie, da allenatore-giocatore. Feci un errore nel fidarmi di certa gente. Venni esonerato a una giornata dalla fine, a promozione fatta, per una questione di soldi. Sono stato anche a Tortoreto, una stagione bella. Spinozzi, mio ex compagno alla Lazio, mi fece conoscere il presidente e firmai, sempre allenatore-giocatore».

Segue ancora il calcio?

«Quasi per niente. Se devo scegliere tra calcio e tennis scelgo la racchetta. Non è più il mio calcio, non mi piace. Né la gente che lo governa, né la gente che si butta a terra per far ammonire l’avversario. Né altri personaggi. Poi, se davanti al televisore vedo una squadra di serie A con una formazione esterofila con un solo giocatore italiano cambio canale. I tanti stranieri tolgono spazio ai nostri giovani. E’ troppo, decisamente troppo».

Terzino di spinta, giusto? «Dopo Facchetti venivo io, un mancino che giocava a destra. L’altro terzino nella Lazio, Martini, che giocava a sinistra era un destro. In Nazionale? Fui messo in preallarme alla vigilia di Mexico 70. Poi, all’ultimo taglio del ct Valcareggi uscì fuori il mio nome e rimasi a casa».

La storia delle pistole nello spogliatoio della Lazio 1973-74, quella dello scudetto, è vera?

«Tutta una presa in giro. A quel tempo c’era il porto d’armi. E ce l’avevo anch’io. Negli anni Settanta Roma era pericolosa. E ci difendevamo. Bastava far vedere che avevi la pistola e ti lasciavano tranquillo. Ma mai la pistola nello spogliatoio. Adesso è un racconto che fa impressione, ma va contestualizzato alla Roma dell’epoca».

Una notte, prima di un derby, alcuni sostenitori giallorossi vennero a fare rumore sotto il vostro albergo sull’Aurelia; lei prese la pistola e iniziò a sparare ai lampioni delle luci per la strada. Conferma?

«Anche questa una cavolata. Qualcuno tirò sassi alle macchine quella sera. Era mezzanotte e con un sasso colpirono anche un lampione. Tutti hanno collegato la pistola al lampione. Ed è nata la leggenda. Ma la verità è diversa».

Negli anni Settanta lei è stato uno dei primi a passare dalla Roma alla Lazio, come avvenne il trasferimento?

«Fui il primo in assoluto. Ebbi un diverbio con Marchini, il presidente della Roma. Venivo dal Verona, mi pagarono 400 milioni di vecchie lire, cifra esagerata a quei tempi. Mi mandò a chiamare e voleva farmi firmare il contratto senza farmelo leggere. Io mi ribellai, lo volevo vedere e, soprattutto, concordare. Lui mi disse: se ne può anche andare. E me ne andai. Alla Roma fecero con altri quello che hanno fatto con me. Ma, dopo un mese, Marchini mi richiamò».

E alla Lazio?

«Alla Roma mi volle Helenio Herrera che aveva avuto Facchetti all’Inter. Voleva che facessi il Facchetti. Quell’anno feci anche un gol alla Lazio nel derby. Ma io non ero Facchetti e litigammo. Lui, il Mago, mi diceva una cosa, ma io ne facevo un’altra perché quello sapevo fare. Al terzo anno litigai con Herrera di brutto. Un giornalista, in estate, mi disse vieni con me al Gallia, a Milano. Dovevo parlare con il Palermo, con il presidente Barbera. Trattativa a buon punto. Poi, incontrai Tommaso Maestrelli, l’allenatore della Lazio, che mi chiese che cosa ci facessi lì, a Milano. “Sono libero”, risposi. La Roma mi doveva dei soldi, a cui rinunciai e il club giallorosso mi diede il cartellino. Maestrelli mi disse: “Ma non ti piacerebbe venire dall’altra parte del Tevere?”. Io risposi: “Bene, non devo fare nemmeno il trasloco...”. E in pochi minuti feci il contratto».

La morte di Luciano Re Cecconi nel gennaio 1977, qual è la sua verità?

«Ero amico della persona che era con lui in quel momento, quando morì. L’orefice puntò la pistola contro Ghedin per scherzo, e lui stava per svenire. Re Cecconi era conosciutissimo da questo orefice. Eravamo di casa in quella gioielleria. Re Cecconi era biondo e facilmente riconoscibile. Entrò e scherzando dissa: “Questa è una rapina”. L’orefice prese la rivoltella per far vedere che era reattivo. La impugnò male e scappò il colpo mortale. Lo ricordo come una brava persona, Re Cecconi era un milanese: parlava con le mani, si sbracciava sempre. Era un simpaticone».

Oggi in chi si rivede?

«Seguo poco il calcio. Non riesco a inquadrare a chi potevo somigliare».

Tifa ancora Lazio?

«Beh, sì, la Lazio è stata la mia pietra miliare. Se non avessi vinto uno scudetto in serie A non sarei Petrelli».

Come si schiera nel braccio di ferro tra i tifosi biancocelesti e il presidente Lotito?

«Lotito ha vinto qualcosa e ha salvato la Lazio da una retrocessione. Bisogna essere riconoscenti. Ma anche Lotito ha il suo caratterino…».

Chi sente ancora del gruppo dello scudetto?

«Soprattutto Giancarlo Oddi. Mi dà sempre brutte notizie di amici che stanno male...».

Il suo migliore amico nel mondo del calcio?

«Oddi, ovviamente. Era l’unico romano della Lazio. Era un amicone. Quando eravamo insieme parlavamo di tutto, tranne che di calcio».

Che cosa ha fatto dopo il calcio?

«Il fungaiolo. Mi piaceva l’agricoltura. Mia moglie aveva 50 ettari di terra a Camerino. Lì facevo le vacanze, altro che Ibiza. Costruimmo dei capannoni su quei terreni per coltivare i funghi. Ho fatto anche il costruttore, dalle parti di Macerata. Poi, comprai una barca a vela e arrivai fino a Tunisi. Girai tanto. Poi, arrivai a Lampedusa. Lì comprai casa. Allenai sull’isola. Fino a quando non è arrivata Rosanna che mi ha portato a Rosciano».

Destra o sinistra nella Lazio anni Settanta?

«Io ero figlio di militare pluridecorato, era campione italiano di bob; mia madre portava i messaggi ai partigiani. Credo di essere più destrorso, mancino di piede e destrorso di pensiero politico».

E’ vero che in quella Lazio ci si picchiava?

«Ma no, facevamo allenamenti intensi e le partitelle erano partite vere. Poi, finiva lì. Diciamo che i miei compagni non erano dei pivellini e si facevano rispettare. Eravamo giovani, belli e spacconi. Avevamo i soldi. Facevamo la bella vita. Altri tempi».

Il suo hobby?

«La barca a vela, l’ho ricomprata e la tengo al porto di Pescara. Ogni tanto vado e la curo, a volte esco. Il mio sogno è quello di andare in solitaria a Lampedusa» A 81 anni! «Beh, che c’è di male?».

©RIPRODUZIONE RISERVATA