Spinozzi sempre a testa alta: dalle liti con Moggi e Lorenzo al calcio marcio, non seguo più

L’ex terzino di Tortoreto tra i ricordi campo e la strage ferroviaria del 1978: «Ho visto la morte in faccia con la carrozza sospesa nel vuoto a Vado». (Nella foto, Arcadio Spinozzi, 72 anni il 3 ottobre, in azione con Fanna)
Negli anni Settanta-Ottanta era un signor marcatore Arcadio Spinozzi da Tortoreto. Arcigno e aggressivo, si definisce. Tanta serie A, partendo dalla Sambenedettese promossa in B. Parentesi all’Angolana (all’inizio della carriera) e all’Aquila (alla fine), ma, soprattutto, Lazio e Verona. Da allenatore non ha sfondato, una parentesi da vice con Boskov: il motivo? Lo spiega lo stesso Spinozzi prossimo ai 72 anni.
Le piace il calcio di oggi?
«Non lo seguo, anche se ho molti amici della Lazio e del Verona. Soprattutto, laziali. Alla Lazio sono stato sei anni. Arrivai che c’era Castagner, Poi, ho avuto Clagluna, Morrone, Carosi, Lorenzo e Gigi Simoni. Anni burrascosi, si cambiava spesso allenatore».
Da quanto tempo non entra in uno stadio?
«Dal 2009, il giorno dopo il terremoto all’Aquila. Avevo promesso a mia figlia di portarla all’Olimpico per il derby con la Roma. Vinse la Lazio. Non ero dell’animo giusto, ma andammo lo stesso».
Com’è il calcio di oggi visto in televisione?
«No, non vedo niente. Raramente, qualche volta la Lazio. Mesi fa sono stato in una tv privata. Ogni tanto mi chiamano le radio romane. Ma non seguo più il mondo del pallone».
Perché?
«Sono disamorato. D’altronde mi sono laureato a Coverciano con il massimo dei voti, ma il calcio era in mano a delinquenti. I corsi erano una farsa. O facevi parte di certe agenzie oppure non allenavi. E allora mi sono allontanato e la passione si è raffreddata».
Con chi ha avuto problemi?
«Non è un segreto, ho litigato con Luciano Moggi, quando eravamo alla Lazio. Alla fine degli anni Novanta regnava un sistema creato da anni. Che si era sviluppato ancora di più. Certa gente aveva in mano la totalità del calcio. Si truccava tutto, anche la moviola. Per non parlare delle designazioni arbitrali. Tutto questo alla fine del secolo scorso. Il capo dei capi telefonava alle trasmissioni e dettava il copione e le condizioni. Alla Lazio, ero con Bigon e Mastropasqua tra gli altri. Sono arrivato che era in serie A e dopo tre giorni era finita in B per lo scandalo delle scommesse. E da lì guerre intestine. Dentro e fuori dall’ambiente per controllare la società. Succedeva di tutto e tutto veniva scaricato addosso alla squadra. Alla vigilia di Natale non avevamo mai perso, eravamo primi in classifica e a Tor di Quinto c’erano diecimila persone a contestarci. Loro litigavano in società e gettavano fango sulla squadra. Bastava far uscire un articolo in una certa maniera sul giornale ed era guerra: dicevano che pensavamo solo ai soldi e invece non prendevamo soldi da mesi. Dicevano che eravamo dei mercenari. Sciocchezze. All’inizio degli anni Duemila chiusi questa parentesi del calcio. Alcuni allenatori venivano esonerati e poi trovavano sempre posto. E altri niente. Me ne sono tornato a Tortoreto dai miei genitori in vita. Ho ritrovato una cittadina diversa da quella avevo lasciato ed eccomi ancora qui».
Per quale squadra fa il tifo?
«Per le squadre in cui ho giocato. Mi hanno voluto bene dappertutto, in particolare alla Lazio. Sei anni difficili e pesanti, ma il rapporto con i tifosi è stato ottimo. A Roma il calcio è vissuto in maniera incredibile. I tifosi laziali soffrivano il momento di difficoltà per lo scandalo scommesse. Era un’epoca diversa».
Oggi Spinozzi giocherebbe in serie A?
«Ero bravo e attento. Io ero un marcatore. Oggi tutti a zona, all’epoca solo Liedholm la faceva. Sì, oggi credo che avrei fatto il calciatore professionista e che avrei giocato in A, nonostante il calcio sia cambiato».
Che giocatore era Spinozzi?
«Ero un terzino, poi mi sono adattato a fare il mediano. Ero un jolly. A San Benedetto ho fatto il marcatore(in serie B, ndr), poi a Verona Valcareggi mi ha fatto giocare da fluidificante, da stopper e da libero. Ero duttile. Adattarsi a più ruoli significa guadagnare la fiducia degli allenatori. Sono andato d’accordo con quasi tutti gli allenatori».
Con chi ha litigato?
«L’argentino Lorenzo. Al primo giorno mi mise fuori rosa».
Racconti pure…
«Primo allenamento di Lorenzo davanti a 20 giornalisti e a tante telecamere. Una passerella. Il mattino successivo la prima vera seduta di lavoro. E mandò i massaggiatori nello spogliatoio: uno aveva un vassoio con pillole bianche e rose e l’altro un vassoio con bicchieri di plastica pieni di un liquido giallastro. Tutti chiedevano: che roba è? Ha deciso Lorenzo, la risposta. Qualcuno prese e buttò nel water, altri ingoiarono. Io dissi che non le volevo prendere. L’unico. Cercai il medico, lo trovai nella sala massaggi ed era scuro in viso, il dottor Ziaco. Gli chiesi che roba era e lui mi disse: “Spina lascia perdere. Fa tutto di testa sua”. E io dissi: “Dite a Lorenzo che non prendo niente”. Lui subito dopo arrivò urlando negli spogliatoi e fui immediatamente messo da parte. Al mattino mi faceva correre e il pomeriggio mi metteva in un angolo con il preparatore senza poter entrare nel rettangolo di gioco».
Qual è l’avversario più forte che ha marcato?
«Ho marcato campioni del mondo e capocannonieri. Rivera? Paolo Rossi? Causio? Claudio Sala? Boninsegna? Altobelli? Antonelli? Fate voi. Beccalossi era forte? Altri tempi, ogni domenica avevo ansia da prestazione. Però, ero un buon professionista e durante la settimana mi allenavo al massimo, così alla domenica andavo in campo con la coscienza a posto. In pochi mi hanno fatto gol».
Picchiava duro?
«No, ero determinato negli interventi. Cercavo di dare meno spazio possibile e tempo all’uomo che marcavo. Reagivo alle mosse dell’avversario con immediatezza. Ero aggressivo. Non feci del male a nessuno. Anzi no».
A chi?
«A Juary, il brasiliano. Lo feci uscire dal campo, una sola volta feci intervento pesante. Stava andando in porta un Lazio-Ascoli vitale per noi e infatti vincemmo 2-1».
A chi è rimasto più legato?
«Ero molto amico di Vincenzo D’Amico. Negli ultimi tempi ho rivisto Renzo Garlaschelli. Oppure sento spesso Renato Miele».
Oggi che cosa fa?
«Ultimamente un calvario in giro per ospedali. Ma sono un pensionato».
Il 15 aprile 1978 rimase coinvolto, insieme al resto della squadra del Verona, nell'incidente ferroviario di Murazze di Vado, che causò 48 morti. Che cosa ricorda?
«Ci sono delle immagini e delle sensazioni che mi sono rimaste dentro. Fu qualcosa di incredibile. Ci salvammo la vita perché facevamo parte del primo turno dei pasti. Eravamo nella carrozza attaccata al locomotore, andammo a mangiare sei carrozze dietro. Morirono quelli del secondo turno. Choc tremendo, rischiai di essere schiacciato. Era un inferno. Carrozza metà nel vuoto e metà nella scarpata, vita appesa a un filo. Secondi terribili. Vidi la morte in faccia».
Il suo nome finì nelle cronache quando venne accusato di essere ben informato sul caso del rapimento Orlandi. Perché?
«Non mi sono fatto mancare niente. Una storia pesante, a Roma non si parlava d’altro. C’era l’immagine di questa ragazza dappertutto».
Lei?
«Niente, ma in una lettera (spedita da Bari) fasulla c’era il mio nome. Il direttore dell’Ansa chiamò la Lazio per avvertire. Il compianto Felice Pulici (allora ds biancoceleste, ndr) mi chiamò. Mi disse di questo falso, cercammo di bloccarla.Ma ormai la notizia era andata e il giorno dopo era su tutti i giornali. Che cosa diceva la lettera? Che sapevo del rapimento, niente di più falso. E che me l’avrebbero fatta pagare, uccidendomi. Nessuno mi toglie dalla testa che fu uno scherzo di pessimo gusto da parte di gente legata ala mondo del calcio».
©RIPRODUZIONE RISERVATA