Crac Di Pietro, chiesti 23 anni di carcere

Le accuse del pm in due ore di requisitoria: Maurizio Di Pietro merita 12 anni, Curti nove e Nicolino Di Pietro tre

TERAMO. E’ con un rigore che trae linfa da tanti pronunciamenti della Cassazione, a cominciare dal caso Cecchi-Gori, che il pm Irene Scordamaglia inanella due ore di requisitoria che ricostruiscono il modus operandi del crac Curti- Di Pietro, assegnando ai tre imprenditori imputati di bancarotta ruoli e responsabilità. Che si traducono in richieste pesanti: 12 anni per Maurizio Di Pietro, 9 anni per Guido Curti e 3 per Nicolino Di Pietro. E’ un sistema fraudolento che sfiora la connivenza con alcuni istituti bancari, laddove secondo l’accusa procedure sospette di cospicui prelievi non sono state mai segnalate, quello che il pm descrive offrendo una carrellata su un maxi flusso di denaro partito da imprese fatte fallire, spostato all’estero e poi fatto rientrare su conti esteri di società create ad hoc con passaggi a Londra, a Lugano e alle Antille.

IL MODUS OPERANDI. Davanti ai giudici del collegio presieduto da Giovanni Spinosa (a latere Carlo Saverio Ferraro e Carla Fazzini) il sostituto procuratore Scordamaglia sintetizza due anni di indagini e una lunga istruttoria dibattimentale per aprire la matrioska di un crac (per l’accusa di 20 milioni) che nel 2012 portò ad una raffica di arresti. E il pm cita Archimede e le leggi sulla leva quando dà il via al suo argomentare facendo leva sul nucleo centrale della perizia del consulente della procura Igor Catania, commercialista laziale, consulente dell’accusa nel processo per il Maddof dei Parioli. Ricostruisce la filiera di società con sedi non solo a Cipro e Teramo ma anche nelle Antille Olandesi, dà corpo e volto alle accuse della procura in una complessa ricostruzione di passaggi societari, fallimenti e compravendite, ma anche di sistematiche operazioni di giroconto che, secondo la sua ricostruzione, avrebbero permesso a Maurizio Di Pietro e Curti di prelevare soldi dai conti delle società per depositarli sui loro conti personali. Soldi distratti con la bancarotta che, secondo l’accusa, sarebbero stati portati in Svizzera, Inghilterra e Cipro per poi tornare puliti in Italia. Parla della Colombo finanziaria, la società fiduciaria di Lugano a cui Maurizio Di Pietro e Curti si sono rivolti per costituire delle società immobiliari sui cui conti far convergere i soldi distratti.

LA CONFISCA. Il pm non chiede solo 23 anni di carcere complessivi, ma anche la confisca delle quote della De Immobiliare e della Kappa Immobiliare, controllate al 99 per cento da due società cipriote: società che per l’accusa erano le tappe finali dei soldi provenienti dalle aziende svuotate e poi fatti rientrare in Italia attraverso i conti esteri. Per il pm le società devono essere confiscate, argomenta, «in quanto profitto del reato, essendo le stesse l’espressione delle somme di denaro in debitamente sottratte». Le quote della Kappa e della De Immobiliare, che restano sequestrate dopo diversi pronunciamenti del tribunale del Riesame, avevano sede legale nello studio del commercialista teramano Carmine Tancredi, socio di studio del governatore Gianni Chiodi (del tutto estraneo alla vicenda). Tancredi, che è stato consulente di Curti e Maurizio Di Pietro, è indagato per concorso in bancarotta in un procedimento connesso e in questa veste nei mesi scorsi è stato citato come teste dalla pubblica accusa (in quell’occasione si è avvalso dalla facoltà di non rispondere).

LE BANCHE. Alcune consistenti operazioni di prelievo dai conti bancari fatti da Curti e Di Pietro, in un caso anche 150mila euro in un giorno, non sono mai state segnalate dai funzionari nonostante i rigorosi dettami della legge antiriciclaggio. Ma è alle banche che il pm riserva l’ultima parte della sua requisitoria chiedendo che gli atti del processo, relativamente alla ricostruzione dell’operato di alcuni funzionari, siano trasmessi alla Banca d’Italia per provvedimenti amministrativi. Si torna in aula lunedì con le parti civili.

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