Il dottor Albano va in pensione: «Ho curato quattro generazioni di aquilani»

7 Ottobre 2025

Il medico di famiglia cesserà l’attività a fine mese: dal sisma alla pandemia, sempre in prima linea: «Ho vissuto con i pazienti gioie e dolori, sono parte della mia vita. Le aree interne vanno tutelate»

L’AQUILA. Dopo quarant’anni di visite, diagnosi e cure, il dottor Vito Albano si prepara a riporre, a 69 anni, stetoscopio e martelletto, gli inseparabili strumenti che lo hanno accompagnato lungo un’intera vita di professione. Il prossimo 31 ottobre sarà il suo ultimo giorno di lavoro, ma per migliaia di pazienti resterà sempre “il dottore di famiglia”, quello che non si è mai tirato indietro, nemmeno a Natale, pronto a rispondere a una chiamata a qualsiasi ora del giorno e della notte. Una dedizione che affonda le radici nella storia di famiglia: il mestiere di medico lo ha respirato fin da bambino, osservando il padre visitare i malati con quella passione che lui stesso avrebbe poi fatto sua. Così, negli anni, ha seguito tre generazioni di aquilani – «anche quattro», precisa con un sorriso – entrando nelle case e nelle vite di chi, col tempo, ha imparato a considerarlo non solo un professionista ma una presenza familiare. Il suo impegno, però, non si è limitato alle visite domiciliari o alle ore d’ambulatorio. Per dieci anni si è occupato attivamente di politiche sanitarie, rivestendo l’incarico di presidente dell’Ordine dei Medici dal 2000 al 2008, oltre che quello di segretario provinciale della Federazione italiana dei medici di medicina generale (Fimmg), il più grande sindacato della categoria. Ruoli che gli hanno consentito di battersi non soltanto per i suoi assistiti, ma anche per i colleghi, in una fase storica segnata da grandi cambiamenti e difficoltà per la sanità territoriale: dal terremoto del 2009 fino all’emergenza pandemica.

Dottore, che emozioni prova oggi?

«Intanto mi fa piacere l’idea di potermi riposare e vivere con più calma, dopo anni in cui l’attività ti costringe a una vita in continua corsa. Dall’altro lato, però, mi dispiace abbandonare più di quarant’anni di professione, soprattutto per quel rapporto con i pazienti che va ben oltre l’aspetto puramente professionale. È una parte di me che resta lì, con loro».

Ricorda il primo giorno da medico di famiglia?

«Più che il primo giorno ricordo i primi tempi dopo l’abilitazione, quando facevo sostituzioni di guardia medica. Era il traguardo che avevo inseguito per anni e che, finalmente, diventava realtà. Una sensazione di responsabilità enorme, ma anche di grande entusiasmo».

E qual è stata la sfida più grande che ha dovuto affrontare?

«Sicuramente il periodo del terremoto. Ci siamo trovati a lavorare senza un supporto vero e proprio, perché all’epoca neppure la Protezione Civile aveva un servizio in grado di sostenere i medici di famiglia. Eravamo senza studi, senza attrezzature, senza una sede di riferimento: un disorientamento totale, per noi e per i pazienti. Era difficilissimo perché i tuoi assistiti erano dispersi, non riuscivi a trovarli e loro non riuscivano a ritrovare te. Allo stesso tempo, c’erano persone sconosciute da assistere, mentre anche noi stessi vivevamo fragilità simili alle loro. In quel contesto, però, il lavoro di gruppo ci ha permesso di far fronte a tutto e di non abbandonare nessuno».

Ha seguito fino a quattro generazioni di pazienti. Che cosa significa per lei?

«È vero, in alcuni casi sto seguendo ragazzi di cui ho curato i bisnonni. In questo si creano rapporti affettivi e di amicizia fortissimi, che vanno al di là del lato umano e hanno anche un valore clinico. Conoscere la storia di una famiglia fin dall’inizio, le ereditarietà e le malattie ricorrenti, ti permette di lavorare con un bagaglio di conoscenze preziosissimo».

Un’eredità che adesso a chi lascerà?

«Adesso lasceremo alla libertà dei pazienti di scegliere, come giusto che sia. Però sono tranquillo: negli anni ho avuto colleghi vicini e preparati, e so che per i miei assistiti sarà più semplice appoggiarsi a loro».

Ha ricoperto incarichi importanti, come presidente dell’Ordine dei Medici e segretario provinciale della Fimmg. Quanto è stato significativo per lei battersi non solo per i pazienti, ma anche per i colleghi?

«I dieci anni di presidenza dell’Ordine sono stati un periodo molto interessante, perché non ci si muoveva soltanto nell’ambito delle problematiche locali: seguendo anche a livello nazionale riuscivi ad aiutare i colleghi. Come sindacalista è diverso: lì ti preoccupi soprattutto dell’assetto della medicina di famiglia. In questo momento, ad esempio, stiamo cercando di creare una contrattazione regionale che possa migliorare la condizione sia del medico sia del cittadino, ma stiamo incontrando un po’ di resistenza da parte della Regione. Parliamo di un nuovo accordo che porterebbe i medici dentro nuove forme di aggregazione, legandoli a un determinato territorio per soddisfare meglio le esigenze delle aree interne e più disagiate. Non siamo ancora riusciti a concludere, ma continueremo a batterci».

Torniamo alla pensione, tanto attesa: come immagina ora il suo futuro?

«Stranamente il mio primo giorno da pensionato coinciderà con il giorno in cui festeggerò i 45 anni dalla laurea: una coincidenza particolare. Quanto al futuro, non ho ancora un’idea precisa di cosa sarà, faccio fatica a immaginarlo perché per oltre quarant’anni la mia vita è stata scandita dai ritmi della professione. So però che sarà un tempo da dedicare alle persone che amo, e forse anche a me stesso, senza però tralasciare l’impegno sindacale e quello ordinistico».

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