Telese intervista Melozzi: «La mia Notte dei serpenti, i Maneskin e i Pinguini: amo stupire e il successo»

foto di Vittoria Luciani
La famiglia, le liti con lo zio e il voto a Becchinotti, i palazzinari della sua Teramo. E poi Mozart che «bruciava le tappe, prefigurava i generi, ucciso dalla Siae»
TERAMO. Gli occhiali sono quelli tondi da rockstar. Il ciuffo riccioluto e il pizzo sono sempre il suo marchio di fabbrica. Enrico Melozzi, 48 anni, musicista, compositore, direttore d’orchestra, arrangiatore. Direttore artistico del festival che – non senza polemiche – ha riportato la musica dell’Abruzzo nel mondo.
Sei un dissacratore seriale, confessa.
«Non necessariamente: sono un musicista».
Ti piace stupire?
«Mi piace avere successo. Stupire può essere parte di un racconto artistico».
Com’è questa tua teoria che, secondo te, se Mozart non fosse morto a 25 anni, avremmo avuto i Beatles nel Settecento?
«Non è una teoria, è una certezza, l’ho raccontato agli studenti del liceo scientifico di Pescara. Ma è complesso, te lo spiego alla fine».
La tua Notte dei serpenti solleverà anche quest’anno mille polemiche e tu godrai come un matto?
«Per nulla. Spero invece che raccolga sempre più consensi perché è una grandissima e complessa macchina di spettacolo».
E allora cosa ti auguri per la serata di domani?
«Mi piacerebbe che qualcuno leggesse questa intervista e dicesse…»
Cosa?
«Stasera mi aspetto una grande serata di musica, me la guardo senza pregiudizi».
Prima di arrivare ai Serpenti raccontiamo la tua gavetta. Da che famiglia vieni?
«Mio padre è un artigiano versatile: sia marmista che ebanista».
E la tua passione per la musica dove nasce?
(ride) «Una vocazione. Il mio primo violoncello, quello con cui ho imparato a suonare, me lo ha prestato la scuola: Conservatorio, a Teramo, una grande palestra».
Come mai proprio il violoncello?
«Come tante cose della vita, per caso. Io in realtà volevo iscrivermi a tromba».
E invece?
«I professori non mi presero perché ero mancino».
Dopodiché?
«Mi iscrissi a corno, felice: i professori di corno quasi mi festeggiavano».
Fantastico. Hai studiato corno, dunque?
(ride) «No. Purtroppo quell’anno c’era un solo iscritto, io, e non si aprì proprio la classe».
Almeno ti prestarono lo strumento.
«Era un violoncello scalcinatissimo, tutto segnato, pieno di graffi sulla cassa. Mio padre mi commosse».
Perché?
«Non aveva mai lavorato su uno strumento musicale: ma si informò con gli altri artigiani, ci si mise su giorno e notte, una mattina me lo restituì come nuovo: aveva restaurato ogni graffio».
Come si chiama?
«Tino. Sabatino detto Tino».
E poi?
«Restituimmo quello alla scuola, e lui ne restaurò un altro usato: carteggiato, stuccato, ridipinto a tampone. Aveva preso la mano».
Oggi quello strumento dove sta?
«L’ho trasformato: è diventato un violoncello elettrico con l’impianto di corde della chitarra Fender pick up».
Ommamma. Non è un sacrilegio?
«Amo il violoncello elettroacustico a sei corde. Un cyborg. Un prodigio».
Ci provi gusto a dissacrare.
«Sperimentare è tutto. Odio musealizzare la musica».
Però non hai raccontato tutto: eri già autodidatta a otto anni!
«E chi te lo ha detto?».
È scritto persino su Wikipedia.
(sospiro) «Come tanti ragazzini strimpellavo al pianoforte».
Componevi già partiture.
«Si, ma non ero mica Mozart: come altri amano il disegnare o l’atletica leggera: era il mio hobby, scrivevo ogni volta che avevo un momento libero».
E tua mamma? Non l’hai mai citata.
«Franca D’Ignazio. Professoressa. Supermadre. Lei mi ha tenuto con i piedi per terra».
Mamma mammona d’Abruzzo?
«Ma figurati. Non veniva mai ai miei concerti con una scusa insindacabile: “Sennò mi sento male”».
In che senso?
«Diceva che provava ansia per me: “E se ti si rompe una corda?”».
Però eri nella sua stessa scuola, un bell’aiuto.
«Non veniva neanche a parlare con i miei professori: pensavano che fossi orfano. Però sui miei voti era severissima».
Ti ha torturato?
«Mi ha salvato».
Perché lo dici?
«Perché oggi quando insegno io, mi ritrovo questa scena: figli che giocano con i cellulari mentre mi propongono di parlare con i genitori, come se fossero i loro agenti».
Meglio tua madre?
«Uhhhhh… A scuola faceva finta di non conoscermi. A casa mi diceva: “Enrico, se fai casini sono cazzi tuoi”».
Eri indisciplinato?
«Non direi: un pazzo scatenato, piuttosto. Sono stato rappresentante di istituto nel 1995, al liceo classifico Delfico».
Lista dei moderati?
«No, sinistra anarco-situazionista».
Cosa hai provato quando hanno chiuso la tua ex scuola?
«Rabbia».
Addirittura.
«È stata una cazzata oscena: hanno cacciato mille ragazzi in strada, dalla mattina alla sera. Che vergogna».
Per tutelarli.
«Sono molto deluso. Non credo a questa narrazione: se rischiavano quegli studenti abbiamo rischiato tutti, per mezzo secolo. Però non cadere nella trappola. Non devi leggere quella chiusura come un banale intervento di protezione civile».
E come va letto?
«È l’ennesimo capitolo nella storia di decadenza di una intera città. Il liceo era l’ultimo lascito, l’ultimo grande baluardo della cultura teramana».
Perché l’ultimo?
«Vedi, Teramo è stata una città meravigliosa, operosa, culturalmente ricca fino alla guerra mondiale».
E poi?
«Poi, al contrario di Pescara, si è bombardata da sola: speculazione edilizia e miopia culturale».
Fammi un esempio.
«Un nome, semmai. Lo storico sindaco democristiano della città. Carino Gambacorta era un palazzinaro. La Teramo del Dopoguerra è stata uccisa dalla speculazione come ideologia. Le è rimasta l’identità palazzinara, inscritta nel Dna da allora».
Molte città italiane hanno sofferto quella stagione.
«Nulla, al nostro cospetto. Vuoi una immagine simbolo? Siamo gli unici al mondo che abbiano abbattuto un Teatro comunale per farci la Standa. Basterebbe questo».
Tu eri in prima linea, da ragazzo, a protestare contro i progetti grandi magazzini: avete presidiato per protesta.
(ride). «Sono stato denunciato per occupazione di suolo pubblico, invasione di edificio privato, se è per questo. Era il 2014».
Tutto prescritto?
«Insomma. Ogni volta che rinnovo il passaporto scopro qualcosa che non torna. Per fortuna il Comune si è ripreso i grandi magazzini».
Ce l’hai con la tua città?
«Ce l’ho con chi l’ha ridotta così. Con chi ha accettato questa narcotizzazione culturale».
Esempio?
«Ma scusami, a te pare possibile che Teramo è l’unica città che non ha una sala per musica ed eventi culturali?».
È vero, malgrado tutta questa edilizia. Come mai?
«La Sala San Carlo è chiusa, ufficialmente per il terremoto».
E poi?
«La sala della Provincia non si sa che fine abbia fatto, fate un’inchiesta. Il Delfico è chiuso. La sala espositiva è chiusa. Prospettiva persona è chiusa. Tutta la città è metaforicamente, fisicamente chiusa, ridotta allo stato vegetativo».
Non era così un tempo?
«Scherzi? Negli anni Settanta Teramo era un fermento totale. Ancora quando ero ragazzo io c’erano 50 rock band di tendenza! Le più originali e alternative».
Tipo?
(ride). «I Worse, Cerumi verdi Vietato vietare, Maloma… Luigi Di Fonzo ha scritto un bellissimo libro su quella scena musicale: Il rock in Abruzzo».
Come arrivi al rock?
«Grazie a Kurt Cobain. Nel 1997 avevo vent’anni. Esce Nevermind dei Nirvana, resto folgorato, mi dico: “Enrico, Devi avere la band”».
Eri appena diplomato.
«Con 40 sessantesimi alla maturità, dieci dieci dieci al Conservatorio».
Dopo il diploma in violoncello e la laurea in composizione avevi ottenuto anche il titolo di Fellow of the London College of Music. Che facevi?
«Studiavo sempre. Scrivevo le mie opere, anche sui banchi, in aula».
Da dove ti arrivava la melomania?
«Il papà di mia mamma era un chitarrista dilettante della Madonna. Faceva il geometra, ma era grecista e latinista: una famiglia di matti».
E gli altri zii?
«Uno preside del liceo scientifico. L’altro zio, Pietro, due volte sindaco democristiano della città».
Era anziano, te lo ricordi?
«Benissimo! Intelligente, curioso. Con noi sarcastico, un personaggio di una vena comica pazzesca: i pranzi di famiglia finivano sempre con litigate memorabili sulla politica, lui che sfotteva mia zia Lalla, come sai giornalista del Centro per una vita, e me. Ero il suo bersaglio preferito».
Ti sfotteva?
«Rideva e mi gridava dietro: “Parli tu, che voti becchinotti! Votiabecchinooóttiíí!!!”».
Ma poi il discorso si faceva serio.
«E lui dava il colpo finale: “Bello fare lo studente comunista, vero? Sappi che i tuoi compagni, in Cina, gli studenti li ammazzano, a piazza Tien an Men!”».
E come finiva?
«Con mia zia che mi prendeva per un braccio: “Enrico dal Conservatorio ti cercano al telefono, vieni, vieni!”. Ah ah ah».
Facevi il ribelle, e non eri profeta in patria, come Marco Pannella.
«Ho un ricordo bellissimo di lui: venne in città e si fece arrestare mentre ci distribuiva la marjuana. Mentre lo portavano via rideva e gridava: “Fumatevela tutta, ragazzi!”».
Sei antiproibizionista?
«Certo. Avremmo molti meno morti, nelle strade. Togliendo lo spaccio alla criminalità organizzata».
Ma intanto eri diventato famoso.
«Non ti ho detto che quando fecero quella irruzione per sgomberare quell’occupazione per il teatro, si verificò una scena comica».
Cioè?
«Stavano entrando cento poliziotti, in assetto antisommossa, uno dietro l’altro».
E voi?
«Eravamo in dodici, impegnati a dipingere gli striscioni. Io avevo materialmente scassinato la porta».
E poi?
«Mi trovo davanti il primo della fila, che abbassa la visiera del casco e mi fa: “Ma tu non sei Melozzi? Ti ho visto a Sanremo”. E quello dietro: “Lui è, lui…”. E il terzo: “T’ì vist lalloc a Raiuno!”».
Risultato?
«Non mi hanno manganellato e abbiamo iniziato a discutere».
Potere della celebrità televisiva.
«Non ci hanno sgombrato, quel giorno, e quello dopo eravamo cento. La gente ci portava il cibo: “Mangiate ragazzi!”».
E poi?
«Siamo rimasti dentro, un mese a gridare: “Sindaco Brucchi Oviesse è occupata! Vogliamo spazi per la cultura in città!”».
Ma dirigere a Sanremo era già un salto di qualità enorme. Quanto ti avevano pagato?
«Ottomila euro per una serata, infatti mi sentivo ricco».
Come ci eri arrivato?
«Nel 2012 con Noemi. Lei era venuta a un mio concerto alla Casa del Jazz. Avevo messo su a serata con Sarah Jane Morris, Cello’s song. Da cosa nasce cosa».
Quale era la canzone che hai diretto e arrangiato?
«A Sanremo ho arrangiato, per lei, Sono solo parole».
Dopo sarebbe nato il rapporto con i i Pinguini tattici nucleari, Ghali, i Maneskin, e Damiano... Sei considerato un grande arrangiatore.
«Il trucco è spogliarsi del tutto dell’ego. Anche quello musicale».
Cosa significa?
«Non sei un artista. Sei un artigiano. Un orologiaio che sistema un ingranaggio».
Tu però avevi una vita parallela nella Roma della musica alternativa.
«Mi ero infilato nell’underground con i miei Cento cellos. E poi con l’Orchestra notturna clandestina».
Clandestini mica tanto.
«Perché poi abbiamo avuto successo e abbiamo inaugurato la Torre Velasca di Milano».
È stato importante anche il rapporto con Achille Lauro.
(ride). «Nato per sbaglio, da tappabuchi».
Cioè?
«Nel 2019, mi chiama la Sony: “Abbiamo un artista perfetto per te, le prove iniziano dopodomani”. Era il giorno della Befana!».
Cos’era successo?
«Avevano litigato con il mio predecessore. E così entro in studio e… (canta). “Sdraiato a terra come i Doors!!!”. Era Rolls Royce! Pezzo splendido, peraltro».
Con chi lavoravi?
«Il produttore era Fabrizio Ferraguzzo, che poi diventerà produttore dei Maneskin».
Clima buono?
«Entrambi abbiamo pensato, in un primo momento: “Questo è un matto! Un coglione!”. I grandi sodalizi artistici nascono così».
E il tuo rapporto con Ferraguzzo?
«Un giorno mi dice: “Io non vado più a Sanremo se non vieni tu”. Siamo andati».
Per i Pinguini tattici nucleari hai scritto un medley che ha fatto scuola.
«Mi ero inventato una struttura pazzesca: una canzone per ogni decade in ordine cronologico, da Papaveri e papavere, fino ai Pinguini. Ogni taglio un cambio di tonalità… uno dei lavori più lunghi e complessi della mia vita».
E i Pinguini?
«Erano partiti con “Sto gruppo non lo conosce a nessuno”, arrivarono terzi. Ma l’anno dopo chiudono tutti i teatri, arriva il Covid. Finiamo tutti in letargo».
Risorgi con Zitti e buoni.
«I Maneskin avevano perso X Factor. Si vociferava di dischi all’estero: arrivano a Sanremo in un momento particolare».
È sempre Damiano che ti vuole.
«Dice ai produttori: “Se non ci sta Melozzi non vengo”».
La Zitti e buoni del Festival, è diversa da quella del disco.
«Guardati il video: il mio contributo è andare contro canto alle chitarre elettriche con gli archi. Credo sia uno dei momenti più potenti di musica in tv del decennio. Vinciamo».
Che altro c’era nel tuo arrangiamento?
(ride) «C’era tutto, frullato bene: batterie addizionali, bassi e chitarre. Ma non svelo altri segreti della bottega. Sanremo è una bomba atomica».
Cosa intendi?
«Un giorno mi chiama un venditore di strumenti musicali e mi fa: “Volevo ringraziarti! Grazie a voi abbiamo venduto un sacco di violini!”».
Per dieci secondi di video che inquadrano quel bellissimo controcanto di archi?
«Dieci secondi con dieci milioni di spettatori, in tv sono come un romanzo. Non lo devo spiegarlo a te».
Alla luce di tutto questo proviamo a raccontare il romanzo della tua Notte dei serpenti.
«Avevo appena vinto Sanremo. Mi chiama Marsilio, ci vediamo vicino a Porta Pia nella sede romana della Regione Abruzzo».
E di che parlate?
«Di musica popolare. Gli dico cosa penso della pizzica: “Il ritmo nel cambio degli accordi è il doppio della taranta! Se la pizzica è la disco, il saltarello è la tecno!!”».
Fantastico.
«Spiego che si sarebbe potuto fare una notte del saltarello molto più bella della notte della taranta».
Lui ha chiaro cosa votavi?
«Non gliene frega nulla».
E come finisce?
«Ci salutiamo cordialmente. Dopo due mesi Marsilio mi richiama e mi dice: “Ho trovato i fondi. Facciamo la nottata della musica folk?”».
Immaginavi le polemiche?
«Ma certo! Fino a tre anni prima d’estate tutti ballavano le hit americane del momento, ora è tornata la passione folk. Gente che prova canzoni per un anno. Ma nessuno te ne riconosce il merito».
Ancora qualcuno si chiede: perché i Serpenti e non - chessò - le pecore?
«Ho fatto uno studio molto approfondito sui nostri miti, e alla fine sono andato a ripescare il rito dei serpari di Cocullo. Pensa… vengono a documentarlo la BBC e tutte le reti del mondo, ma in Italia non ne parla nessuno».
Il serpente è un simbolo di marketing efficace?
«In Puglia hanno scelto il ragno. Io, confesso, ho scartato la pecora, ero in dubbio sui lupi, e mi serviva un rettile: sono andato sui serpenti».
Poi sono arrivate le polemiche sui costi.
«Prevedibili. Perché il vero provinciale – per fortuna sono pochi – non capisce che per parlare al mondo bisogna investire: che non si può fare un concertino da quattromila euro!».
La prima edizione costò 435mila euro.
«E la seconda un milione più Iva. Nella terza, questa, la Regione ci ha tagliato il 60% del budget, ma siamo riusciti a restare intorno al milione».
Raccogliendo sponsor.
«Siamo riusciti a compensare il definanziamento grazie ai privati e al contributo della RAI, che ora finanzia con tutti i mezzi tecnici per la messa in onda».
E non sei contento?
«Sono felice di poter dire agli abruzzesi: costiamo di meno alla regione, ma serviamo di più alla regione».
Per la Rai ora siete un prodotto che funziona: 9.8% di media, picco il 13%. Un milione 150mila spettatori. Pensi che un giorno starete in piedi da soli?
«Lo spero. Per ora abbiamo dovuto fare tagli pazzeschi: danzatori, musicisti, coristi, fonici: costano».
Che tipo di tagli?
«Sette giorni di prove invece che quattordici. Prove solo il pomeriggio per risparmiare i cestini del pranzo».
E poi?
«Le ragazze più giovani del cast, anziché andare in albergo, dormono tutte dalle suore, al convento di Santa Chiara».
Chiudiamo con tre momenti da cornice del passato, e quella tua idea su Mozart.
«Indimenticabile, nella prima edizione, lo show di Mr. Rain. Veniva da Sanremo: ha preso un coro di bambini e ha cantato Nù seme nù! Per me quello è l’inno identitario pescarese: noi siamo noi».
E allora anche Umberto Tozzi che canta ‘Gente di mare’.
«Certo! Abbiamo contributo a far andare il Pescara in serie B. Pensa che lui non la voleva fare. Adesso lo rimanderò nel maxischermo prima del concerto di domenica!».
E poi la tua versione Vola vola vola. Rivela il segreto di quell’arrangiamento!
«La canzone originale, come è noto, è scritta per due accordi, perfetta per il Du’ botte: io l’ho riarmonizzata a dodici accordi, ma il bello è che non si nota».
Come ti è venuto in mente?
«Ho copiato».
Cioè?
«Ho fatto come Bach che prendeva le semplicissime melodie luterane e le armonizzava in modo assurdi, facendole cambiare senso».
È un trucco.
«Sì. Immagina la scena de due treni in stazione: ti sembra di muoverti, anche se sei su quello fermo, perché si muove l’altro».
Chiudiamo in bellezza, la tua teoria su Mozart.
«Non è vero che la sua Requiem è incompiuta. La scena finale di Amadeus è bellissima, perché lui lavorava proprio così: andava velocissimo, anche nella scrittura, e lasciava ai copisti il lavoro di rifinitura. Sempre».
E perché?
«Era un genio. Bruciava le tappe, prefigurava i generi».
E se non fosse morto a 35 anni?
«Avrebbe scoperto tutto quello che mancava al suo tempo: il romanticismo, la dodecafonia, di certo anche il rock: Beethoven non sarebbe stato nessuno. I Beatles sarebbero diventati un fenomeno di fine Settecento».
Quindi non lo ha ucciso il perfido e geloso Salieri, come ipotizza nel film Milos Forman?
«Macché. È un giallo con un colpevole chiaro: eliminato dagli editori della musica, altrimenti avrebbe inventato tutto lui, e addio diritti d’autore. Mozart l’ha ucciso la Siae».
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