Pescara

Abruzzo unito per Gaza: «I movimenti dal basso possono fare la storia, dissenso è democrazia»

8 Settembre 2025

Enzo Fimiani, prof di Storia contemporanea all’ateneo D’Annunzio: «Giusto scendere in strada, l’11 ottobre saremo sulla Costa dei trabocchi»

PESCARA. Una mobilitazione di slogan e voci, con tutti i colori della bandiera della pace a sfilare accanto a quelle della Palestina. Un evento, quello dello scorso sabato, che ha portato in strada migliaia di cittadini abruzzesi, attraversando i luoghi simbolo delle città (Pescara, Chieti, Teramo e Avezzano) al grido di “Fermiamo la barbarie”, con la Cgil a guidare un corteo (un «serpentone») in sostengo della Global Sumud Flotilla, iniziativa popolare che viaggia a vele spiegate verso Gaza per rompere il blocco navale imposto da Israele e consegnare aiuti umanitari, per quella che è la più grande impresa “dal basso” partita in sostegno del popolo palestinese dai mostruosi attacchi del 7 ottobre 2023. Anziani, bambini, donne, uomini, soprattutto l’energia da fiume in piena di quei ragazzi che nella tragedia del Medio Oriente vedono «il simbolo di tutte le ingiustizie», spiega Enzo Fimiani (professore associato di Storia contemporanea all’università degli studi Gabriele d’Annunzio di Chieti Pescara). Un “Medio Oriente” di cui in realtà, lo spiegherà, Fimiani non vuol sentir parlare. Ma è intimamente convinto della bontà delle manifestazioni.

Professor Fimiani, in Abruzzo migliaia di persone sono scese in strada per Gaza. È tra quelli che pensa che non servirà a niente?

«Scherza? Tutte le manifestazioni sono positive, la società civile ha il dovere di farsi sentire».

Lei era in una delle piazze?

«Purtroppo non ho potuto, ma le annuncio che l’11 ottobre dalle dieci del mattino sarò lungo la Costa dei trabocchi, tra Ortona e Fossacesia, per una nuova manifestazione promossa da Pescara Aternum. Le adesioni sono già moltissime».

Guardate ad est.

«Con le imbarcazioni che ci seguiranno dal mare, sventolando la bandiera della pace e della Palestina. È importante esserci».

Ma noi nel concreto cosa possiamo fare?

«I movimenti che nascono dal basso vanno sempre tenuti in considerazione, soprattutto nella società di oggi dove manifestare è più difficile».

Perché?

«Le persone si fanno sentire solo privatamente, nel loro piccolo. Non escono fuori a gridare il loro dissenso. E quando succede, il governo la vive come una grana di cui occuparsi. Diventa questione di ordine pubblico, invece il dissenso è il sale della democrazia. Ce ne siamo dimenticati».

Ora qualcosa si muove.

«È importante che siano i giovani a impegnarsi a livello collettivo per Gaza, come accade. Sono loro il motore del dissenso, allora dico che bisogna capirli anche quando esagerano nelle parole radicali, negli slogan, quando generalizzano applicando delle logiche estreme».

Ma spesso proprio per queste forme estreme di lotta, l’accusa è di cadere nell’antisemitismo.

«Quella è una questione scivolosissima. Credo che ci sia un problema da entrambe le parti: quando c’è un eccesso di critica verso l’ebraismo in senso generale e non verso l’espressione statuale del Governo di Israele, ma se dico così, oggi, do il destro a Israele per sfruttare l’accusa dell’antisemitismo».

Quindi come ne usciamo?

«È un gioco delle parti in cui la questione dell’antisemitismo inquina il dibattito pubblico. Non è quello il punto…».

E qual è?

«Per troppo tempo abbiamo colpevolmente abbandonato la compagine democratica di Israele, che è o almeno era numerosa e ha lottato per anni contro il governo Netanyahu per evitare l’approvazione di alcune leggi che limitassero, tra le altre cose, il potere giudiziario».

Cosa si poteva fare?

«Ovviamente quell’Israele andava sostenuta, anche per evitare l’exploit degli ultra-ortodossi e così derive come quelle che viviamo oggi. Non va dimenticato che il governo Netanyahu è quello più longevo della storia di Israele, quello che più di tutti sta determinando le sorti di quel popolo e di quel territorio. Non si doveva permettere a quel governo di isolare la parte più civile e democratica della sua società».

Ma ai ragazzi che scendono in strada importa di tutto questo? O c’è altro?

«I giovani vedono in quello che accade a Gaza il simbolo delle ingiustizie del mondo. Per questo dico che la loro è una lotta che va guardata con rispetto. Perché quando si muovono i giovani è sempre un fatto positivo. Pensi agli anni Sessanta…».

Ma il governo, oggi, non è proprio figlio di quel pensiero.

«No, piaccia o meno siamo tutti figli di quelle conquiste. Veniamo da una stagione storica, la più autentica se non l’unica realmente riformista dell’Italia unita, e a quella dobbiamo guardare per capire che peso possono avere movimenti partiti dal basso».

Anche perché mai come oggi c’è una frattura evidente tra cittadini e linea di governo.

«Sì, finalmente siamo usciti dalla condizione di sonnambulismo in cui eravamo caduti. Oggi è impossibile rimanere indifferenti alle immagini che ci arrivano da Gaza. Ma che assurdità aver dimenticato per così tanto tempo quel “bubbone” della questione palestinese».

In questo senso, il 7 ottobre è stato lo schiocco di dita.

«Il vero grande problema è che abbiamo sempre pensato a Gaza e a quei territori in termini completamente sbagliati, parlando di Medio Oriente come fanno gli Stati Uniti (Middle East, ndr)».

E invece?

«Per capire quanto realmente la questione ci riguarda, per un fatto geografico e culturale, ho una proposta: iniziamo a parlare di “Vicino Oriente”».

©RIPRODUZIONE RISERVATA