Alle radici dell’Abruzzo

Territori e identità in un progetto dell’università di Teramo.

Riflettere sulla propria identità per capire come orientare lo sviluppo dell’Abruzzo. Il dipartimento di teorie e politiche dello sviluppo sociale dell’Università di Teramo ha avviato su “Territori e identità” un progetto che fornisce una nuova chiave di lettura su piccole e grandi realtà locali. Una riflessione che non a caso viene avviata ora. Il terremoto del 6 aprile, come altri grandi eventi nella storia della regione, mette fortemente in discussione il concetto di identità. Il terremoto di Avezzano del 1915, i ripetuti fenomeni migratori, l’industrializzazione degli anni Sessanta e infine il nuovo sisma rappresentano indubbiamente stravolgimenti per l’Abruzzo. «L’emigrazione è stato uno dei primi fenomeni di perdita dell’identità», osserva la docente Agnese Vardanega, «un altro trauma, ad esempio, è stato il declino industriale, soprattutto nel Teramano, nelle vallate del Vomano e Vibrata». Lo spopolamento delle comunità - per l’emigrazione o la chisura di fabbriche - significa perdita dell’identità. «Ma ora c’è una differenza», riprende Vardanega, «se fino a qualche tempo fa tutti questi aggiustamenti venivano gestiti interamente dalle popolazioni locali, e quindi i processi di sviluppo venivano decisi in loco, oggi qualunque decisione si voglia prendere rientra in un quadro di competizione globale. Questo dovrebbe cambiare l’approccio di imprenditori e politici: il rischio è che ci si butti su un’internazionalizzazione “sciagurata” che stravolga le culture locali. Questo sarebbe poco apprezzabile dalle popolazione e dal punto di vista etico, ma sarebbe anche non vincente in campo economico. L’identità - quindi la peculiarità - si vende bene sul mercato, anche dal punto di vista turistico».

ENOGASTRONOMIA. Tutta l’attività di ricerca sull’identità ha diverse sfaccettature. Una riguarda l’enogastronomia. «Guardiamo, ad esempio, alla comunicazione riguardo l’enogastronomia. In quasi nessun ristorante in provincia di Teramo si può mangiare altro che non sia cucina teramana. Ma non è scritto da nessuna parte che è cucina teramana. Questo significa che c’è un’identità molto forte, ma al turista il prodotto non si propone come proprio. Non c’è consapevolezza della propria identità, che non si sa comunicare all’esterno».

IL CASO NAVELLI. Il discorso prosegue con una ricerca, condotta da Rita Salvatore, che parla fra l’altro dei prodotti tipici. Le “virtù” (piatto del 1º maggio) a Teramo sono il classico prodotto tipico, che diventa «marker territoriale» con un grosso appeal. Altrettanto non può dirsi dello zafferano di Navelli. «In effetti non rientra nei prodotti tipici», spiega Vardanega, «visto che storicamente veniva usato come moneta e non a livello locale. Veniva usato da imprenditori come merce di scambio. La gente lo coltivava, ma non lo usava. Tant’è che non ci sono tracce nella tradizione culinaria». Invece nel caso della mortadella di Campotosto è stata vincente la comunicazione spontanea dei piccoli produttori. «Il lancio c’è stato con i cartelli “fai da te” sistemati sulla statale 80 dai produttori di mortadella. I camionisti e i turisti si fermano incuriositi, così il produttore crea l’identità del suo prodotto». Certo è, precisa però la docente che poi questo processo, dovunque si verifichi, andrebbe supportato. «Soprattutto nell’export: il prodotto rappresenta la propria identità all’estero».

I CENTRI DELLA COSTA. Un altro approccio lo fornisce uno studio di Consuelo Diodati su come nasce il turismo a Giulianova e in altri centri della costa. «La crisi dell’agricoltura ha spostato i contadini verso la costa», spiega Vardanega, «e così sono arrivati, negli anni Sessanta, a fare attività turistica. La riprova è che a Giulianova Lido tracce di periodi precedenti sono solo alcune ville decò e alcune colonie fasciste. Anche l’attività peschereccia è tutto sommato recente. Ci sono state ondate di persone arrivate sulla costa per fare affari, separate dalla comunità locale. E’ un caso di identità indebolita dallo sviluppo turistico».

L’ESEMPIO DI ATRI. Ad Atri, città d’arte, accade l’opposto. A soli 10 chilometri dalla costa c’è un solo albergo. «C’è un’identità fortissima che ha anche effetti positivi, ad esempio è stato ottenuto benestare a gestire il turismo religioso. Qui c’è una comunità compatta, ma chiusa. E il rischio è che alla fine non si riesca a uscire dalla crisi. Ad esempio non hanno posti letto sufficienti per lo sviluppo turistico». La ricerca sul piano strategico di Atri, che il Comune vuol varare (Maurilio Ronci e Roberto Mastromarini) ha evidenziato che c’è un solo hotel, ma molti bed & breakfast e agriturismi, spesso pieni.