Chiara Ciavolich: «Cerasuolo, non rosato. Difendiamone l’identità»

La patron della cantina di Miglianico: «È il vino del futuro, non va banalizzato». E sulle imitazioni: «Il suo colore è unico, chi lo scolorisce non ne rispetta la storia»
MIGLIANICO. Nel panorama dei vini rosati italiani, il Cerasuolo d’Abruzzo occupa un posto a sé. È un vino riconoscibile, dal colore unico, sincero, profondamente legato alla cultura abruzzese. Per me il Cerasuolo d’Abruzzo è il vino del futuro. In primis della nostra regione, perché non porta con sé anni di quella mortificazione commerciale che hanno invece subito il Trebbiano e Montepulciano. È rimasto ancora, in qualche modo, un perfetto sconosciuto dalle mille possibilità e prospettive. Insomma, il Cerasuolo è l’ignoto che si apre al futuro del gusto: in un mondo alle prese con un cambiamento climatico galoppante, in cui le annate si fanno sempre più calde e i consumi dei rossi scendono, salgono quelli dei rosati e soprattutto del Cerasuolo, quello autentico, proprio perché va incontro alla richiesta di freschezza del mercato attuale.
Ma oggi, proprio nel momento in cui i rosati vivono una rinnovata popolarità globale, è fondamentale chiedersi: quale futuro vogliamo per il Cerasuolo? Personalmente, non vedo il Cerasuolo d’Abruzzo come un “semplice” rosato. È un’identità. E come tutte le identità, non può essere diluita per inseguire mode passeggere o tendenze internazionali. Nomen omen: il colore è sostanza.
Questo vino non può essere pallido. Il suo nome viene da cerasa, la ciliegia. Nasce con un colore preciso, quello della ciliegia matura, e anche se può avere diverse sfumature, non può diventare salmone o cipolla. Non si tratta solo di estetica, ma di coerenza culturale. Chi pensa che il colore possa sembrare un dettaglio si sbaglia, perché è il primo presidio di autenticità, la prima roccaforte dell’identità di un prodotto che appartiene alla nostra tradizione.
Il Cerasuolo, poi, ha un frutto vero, pieno, che sa davvero di ciliegia. Ha una masticabilità unica, che gli deriva dal Montepulciano vinificato in bianco. E ha anche un’acidità diversa: meno malico, più tartarico, che lo rende fresco ma non pungente, mai aggressivo come quei rosati che sanno di mela verde. La struttura del Cerasuolo autentico non solo è in grado di reggere il tempo, ma può evolvere, anche in bottiglia.
Ci hanno insegnato a temere i riflessi aranciati o mattonati, come se fossero segnali di decadenza. Ma in un Cerasuolo serio, maturo, sono solo parte di una sua possibile evoluzione. E anzi, possono diventare un dettaglio molto sofisticato per chi sa apprezzarlo. Non un vino d’estate, ma un vino vero. È per questo che rifiuto con decisione l’idea del rosato come vino stagionale, da aperitivo, da consumo superficiale. Il Cerasuolo non è un vino da spiaggia. È un vino da bere tutto l’anno. È versatile, sì, ma non è semplice. È complesso, stratificato, vivo. È un’identità da difendere, una storia da onorare.
Oggi più che mai, serve una presa di coscienza culturale da parte dei produttori abruzzesi. Dobbiamo ricordarci chi siamo. La nostra storia, la nostra tradizione contadina, il nostro sapere enologico. In passato, fare un buon Cerasuolo era più difficile che fare un rosso. Non c’erano le tecnologie di oggi, eppure era il vino che si offriva con orgoglio agli ospiti. Era la prova del talento del cantiniere.
Chi produce oggi un vino scolorito, privo di personalità, e si ostina a chiamarlo ancora Cerasuolo, non ha rispetto per tutto questo. E soprattutto, non ha contatto con la realtà. Perché il mondo non ha bisogno dell’ennesimo rosato leggero e anonimo che scimmiotta la Provenza: ha bisogno di vini autentici, capaci di raccontare territori, storie, culture. Come il nostro Cerasuolo d’Abruzzo, che può essere davvero la nuova avanguardia del vino italiano, ma solo se resta fedele a se stesso.
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