Fermiamo le iene imprenditrici

C’era una volta un cavaliere senza macchia e senza paura. Avanzava sicuro senza mai fermarsi davanti ad alcun ostacolo. Soccorreva i disastrati, dava un tetto a chi l’aveva perso, ripuliva grandi città e paesini sconosciuti da immondizie putride e maleodoranti. E innanzitutto era capace di dare conforto e infondere speranza. Ce la si può fare. Un altro destino è possibile. C’era una volta...

Ora non c’è più quel cavaliere. La sua aura s’è dissolta. La favola bella s’è rivelata quel che è: una favola, appunto. Mentre la realtà appare ancor più amara, viscida, a tratti schifosa.
Non so - in questa fase almeno non è possibile saperlo - se Guido Bertolaso sia colpevole o meno. So di aver conosciuto, insieme a tantissimi aquilani, una persona diversa da quel che emerge dalla inquietante lettura delle carte dell’inchiesta sullo scandalo G8 alla Maddalena. Decisionista, efficiente, con piglio militaresco derivato dalla educazione paterna, sicuramente autoritario; ma con una insolita capacità di ascoltare, con una disponibilità a confrontarsi con la gente semplice e con i suoi problemi quotidiani, attento alle sensibilità altrui. Nelle tendopoli dell’Aquila, nei giorni duri del dolore e della rabbia, c’era lui a parlare con gli sfollati; a rendersi conto di persona; non tecnocrate ma capo dal carisma riconosciuto e dalla spiccata carica umana. Tanti politici di professione, anche aquilani, invece erano altrove.

«Sono un missionario» ha confidato un giorno di fine settembre, alla vigilia della consegna delle case di Bazzano, quelle inaugurate nel giorno del compleanno di Berlusconi. La frase mi colpì per la considerazione che l’uomo mostrava di avere di se stesso e del suo incarico. Personalità doppia? Cinismo camuffato da umanità? Se fosse vero, che delusione. Una ferita lacerante per la coscienza pubblica.
Come per ogni cavaliere di rango, una corte variopinta s’affollava intorno a lui. Fedeli servitori e stallieri traditori. Questi ultimi, a quanto pare, in grande numero. Quelle frasi, quelle risate nella notte del terremoto restano una vergogna nazionale. Non c’è spiegazione, non c’è giustificazione che possa attenuare la nausea.

Gli sciacalli - ha assicurato Gianni Letta - non avranno la possibilità di lavorare all’Aquila. E’ il minimo che si possa dire ai terremotati. L’abruzzese Letta, cauto e riservato uomo di equilibrio all’interno del governo Berlusconi, si è dovuto esibire venerdì in un accorato comizio, così insolito per il suo stile. Il governo sente il bisogno di correre ai ripari, qui in Abruzzo e all’Aquila non può dire che è tutta colpa di magistrati che dovrebbero vergognarsi, perché la rabbia per quelle sconce risate non conosce appartenenza: destra, sinistra, è una contrapposizione che davanti al dolore non regge. Anche l’elettorato di centrodestra è smarrito e sconcertato. Le escort, i favori, persino le tangenti - secondo i più fedeli all’ideologia berlusconiana - si possono perdonare. Ma c’è un limite a tutto. E stavolta le intercettazioni ci dicono che è stato oltrepassato.

Tuttavia davvero possiamo star sicuri che le iene imprenditrici non faranno affari con la ricostruzione post-sisma? Sarebbe bello se così fosse. Il sistema gelatinoso ha consentito che dalla Maddalena a Roma si intrecciassero appalti e connivenze, affari di famiglia e carriere folgoranti. Perché ora L’Aquila dovrebbe essere diversa? Camorra, mafia e non solo. L’ombra del dubbio è calata. Sarà difficile per il governo, per la Protezione civile - e per il commissariato regionale che ne ha ereditato le funzioni - recuperare la fiducia dei cittadini. Servirebbe almeno una grande opera di trasparenza. Troppo potere in poche mani è un danno per la nostra debole democrazia.