Inviati di guerra, rischi e cultura

Parla Duilio Giammaria, vincitore per la tv del premio Russo 2009.

Molti lo ricordano con il braccio fasciato nei suoi collegamenti dal nord Iraq, pochi sanno che quell’incidente fu dovuto a un equivoco culturale con il traduttore, un equivoco che per poco non gli costò la vita.
Duilio Giammaria (nella foto a lato) è un inviato del Tg1, ha seguito la guerra in Iraq (la seconda), ed è ormai quasi di casa in Afghanistan. La sua esperienza lo ha portato a scrivere un libro, «Seta e veleni - Racconti dall’Asia Centrale» (240 pagine, 9 euro), da poco ripubblicato da Feltrinelli in edizione economica. Duilio Giammaria è uno dei premiati del Russo (si veda riquadro in basso), il riconoscimento per i reportage di guerra organizzato a Francavilla in ricordo di Antonio Russo, giornalista abruzzese free lance, morto il 16 ottobre 2000 mentre seguiva la guerra in Cecenia. Giammaria, in una pausa delle sue missioni all’estero, ha rilasciato al Centro l’intervista che segue.

Cosa pensa quando riceve un premio?
«Un premio è un modo di instaurare un particolare rapporto con il tuo lavoro ma anche con ciò a cui si ispira il premio. Antonio Russo è un collega che non ho conosciuto ma che ho seguito da lontano. E poi ho ripercorso le sue tappe andando anche in Cecenia. Dunque, ricevere un premio è in un qualche modo un segnale di fratellanza, è un legame forte».

Quali rischi si corrono e quali azzardi si devono fare (e quali no) in scenari di guerra per riportare a casa la notizia, e la vita?
«I rischi sono in funzione di quello che tu vuoi trovare, possono essere limitati o molto ampi. Spesso è un fattore di coscienza. In scenari molto complicati, internazionali, nessuno, oltre te, ha la possibilità di determinare quale sia la notizia né di capire quale sia il prezzo da correre. Se mi accorgo che il livello di tensione rischia di coprire anche l’attenzione che hai per il luogo dove ti trovi, rinuncio. Gli azzardi si devono fare dovunque sia possibile. Gli scenari di guerra sono spesso pericolosi ma l’azzardo fa parte della vita del giornalista, anche di chi fa il mestiere in Italia, chi fa politica, chi fa cronaca... Ecco, per tornare alla domanda precedente, i premi servono anche a ricordarci che siamo un gruppo di persone chiamate a fare anche qualcosa in più del dovuto».

Si è mai detto, ma chi me lo ha fatto fare?
«Sì. Mi è capitato una volta quando sono finito sotto il fuoco, in nord Iraq. Finimmo in un’imboscata. Io per scappare mi ruppi un braccio. Quella volta lì lo pensai, anche perché non era una grande notizia che stavo cercando, era una ispezione quasi di routine, in prima linea. Finire male per una cosa del genere ti fa sentire anche stupido. Quando riuscii a raggiungere un ospedale, quello di Gino Strada, tra l’altro, lui mi disse di dire che mi avevano quasi ammazzato, ma io gli risposi di no, perché mi sentivo un fesso».

Lei ha testimoniato l’opposizione dei curdi in Iraq prima della caduta del regime di Saddam. Come si fa a far capire a chi usa le armi che l’informazione può essere più forte dei proiettili?
«Non facendo percepire che li guardi semplicemente come soldati, ma soprattutto come uomini. Poi devi far loro capire che li stai guardando anche come soggetto politico, al di là delle armi. Questo vale veramente per tutti. Anche i soldati semplici hanno spesso un richiamo di tipo ideologico, devi appellarti al loro ideale, e fargli capire che sei lì per raccontare perché lo stanno facendo. E’ facile? In una certa misura sì, se conosci i riflessi delle persone con cui stai. Devi usare un linguaggio che si appelli al loro tipo di cultura».

Per esempio?
«Quando sono finito in quel guaio del nord Iraq è stato per un equivoco di tipo culturale. Io e l’operatore, da buoni italiani, quando capitavamo in qualcosa di pericoloso toccavamo ferro o facevamo le corna. E’ un gesto per noi italiani quasi naturale. E magari io e l’operatore ridacchiavamo per scaricare la tensione. Il nostro interprete era un ragazzo, giovane, non capiva nemmeno benissimo l’inglese. Il problema, naturalmente l’ho appreso dopo, è che per loro fare le corna è come dire: “Sei un codardo, un vigliacco”. Lui aveva interpretato la nostra scaramanzia, il nostro ridacchiare, come un modo di prenderlo in giro, nella nostra lingua. Pensava che noi lo ritenevamo un codardo, uno che aveva paura, invece eravamo noi ad avere paura. Quando i guerriglieri lo avvisarono che era pericoloso dove stavano per portarci, lui non ci disse niente. Quasi per dimostrarci che codardo non era. E per poco non morivamo, tutti e tre».

E poi vi siete spiegati?
«Sì, sì, per fortuna ci siamo potuti spiegare. Ma quello è il classico equivoco culturale a cui bisogna stare attenti. Abbiamo rischiato la vita perché uno aveva capito una cosa invece che un’altra».

Il suo breve curriculum per il premio Russo si chiude con tre parole: ha due figlie. Cosa dice alle sue figlie quando parte per una trasferta pericolosa?
«Sono di età diversa, una ha 24 anni, l’altra 4. La grande ovviamente sa tutto, ma quando era adolescente cercavo di non farle percepire il pericolo. La piccolina, ovviamente, non sa niente ma in compenso sa pronunciare perfettamente Afghanistan. Lei ha percepito che è un luogo affascinante, antico, anche per i miei libri e i miei studi sulla loro storia, sulla loro archeologia. Così anche quando andiamo in giro per Roma e vede i resti archeologici dice: è un po’ come l’Afghanistan?».