«Io, cassintegrato di Stellantis. Così sono emigrato in Serbia», i racconti della crisi dell’automotive

Sveglia alle 5, famiglia lontana, difficoltà con lingua e visto, ritmi serrati per fare la Grande Panda. Tutto per arrotondare uno stipendio che anche ad Atessa viene ridotto dagli ammortizzatori sociali
Quando si sveglia attorno alle 5 del mattino in un letto non suo e sotto un cielo che sembra diverso per colori e anche per la consistenza dell’aria, così come sono diversi i suoni, gli odori, i sapori e perfino le facce intorno a lui, il primo pensiero di Antonio è chiedere aiuto. Poi, suona la sveglia. Antonio, un cassintegrato della galassia Stellantis è uno dei circa 200 italiani che lavorano nello stabilimento della Serbia centrale, in una città di 180mila persone. È lì per lavorare alla Grande Panda, ha la tuta targata Stellantis, ma lavora in un paese straniero. I suoi colleghi sono serbi, in maggioranza, ma anche marocchini, algerini, nepalesi. Gli italiani come lui vengono da Piemonte, Campania, Lazio e ora anche Abruzzo. Gli abruzzesi sono una quarantina, gli altri circa cinquanta per ogni regione. Si è creato un piccolo gruppo di italiani e alla fine, come dice Antonio, «sembra di star facendo il militare». Però Antonio ha famiglia ed è per loro che ha scelto di restar lontano per qualche mese a 1.400 chilometri di distanza e tra le 12 e le 14 ore di viaggio in auto da Roma. È a loro che dedica l’ultimo pensiero della sera e il primo del mattino.
La sua è una storia come tante ne stanno spuntando in questi giorni di crisi globale dei motori, ancora a metà tra il diesel e l'elettrico, con l'Europa che spinge per il secondo, ma gli acquirenti che vogliono ancora il primo. Antonio un lavoro ce l’ha in Italia ed è dipendente Stellantis, una delle più grandi realtà motoristiche mondiali. Non è andato in Serbia come prima si andava in Germania o in America. Non per cercare lavoro, ma per arrotondare il salario. È la migrazione 3.0. Non più per farsi una vita, ma per aggiustarsi quella che si ha già. Antonio si è fatto due conti. Settanta euro al giorno di diaria, se si sta attenti e si va ai discount, «quelli con la scritta blu» come li chiama lui, si divide l’appartamento in due-tre persone e si mangia a mensa e poi a cena a casa, possono diventare abbonamenti per le palestre dei figli, libri per studiare, una piccola vacanza in famiglia l’estate, le spese della macchina, quelle per il dentista, il mutuo, qualche piccolo sfizio. Un appartamento «con niente dentro» in una città metropolitana della Serbia centrale, costa di affitto 3-400 euro al mese. Con mobilio ed elettrodomestici anche 1.200/1.300 euro al mese. Ecco perché si va spesso ad abitare insieme. «E non è vero che il costo della vita è più basso che in Italia» tiene a specificare «basta pensare che un caffè costa 180 dinari e che un euro equivale a 117 dinari». Quello che è davvero basso è invece il costo della manodopera. I serbi che lavorano alla Grande Panda percepiscono tra le 600 e le 800 euro. Fanno tutti due o tre lavori. Di giovani, nella fabbrica serba di Stellantis, «ne arrivano 10 e se ne vanno in 8». Ecco perché si cercano lavoratori esteri. Gli italiani però se la passano bene. Hanno stipendi italiani e l’esperienza estera serve, appunto, a colmare ciò che resta del salario di un italiano in cassa integrazione o in cassa di solidarietà come ad Atessa. Nello stabilimento abruzzese, leader nella costruzione di furgoni commerciali leggeri, la direzione aziendale ha fatto sapere che chi vuole può andare a lavorare a Torino o in Serbia.
A Kragujevac qualche italiano sta avendo la proroga del contratto appena scadranno i cinque mesi dal primo ingaggio. Antonio invece tornerà a casa.
«Mi manca troppo la mia famiglia» dice «alla mia età non sono più abituato a non vederli». Come gli altri italiani ha un viaggio pagato dall’azienda ogni 45 giorni. Ma deve fare tre ore di pulman per raggiungere Belgrado e poi Roma, via aereo. La sua più grande difficoltà è la lingua. «Chi non parla serbo o inglese è tagliato fuori» racconta «non sono mai stato razzista e non si può parlare di razzismo nella nostra condizione. Ma adesso capisco chi lascia tutto per venire in Italia, sento il loro dolore e la loro difficoltà. E io non vengo da un Paese in guerra». Primo ostacolo è il visto. Serve per avere un appartamento in affitto e lo rilascia solo la polizia che, però, può decidere di non consentire l’ingresso del cellulare in caserma. E senza Google translator le cose si fanno sudate per chi non parla nemmeno l’inglese. In fabbrica «non è come in Italia». Le pause sono di 5 minuti, la mensa 25. Chi non si presenta può anche essere licenziato. Al turno di mattina la mensa è tra le 10 e le 11, a quello di sera tra le 17 e le 18. Gli italiani mangiano un panino o insalata, «la pasta è troppo scotta» ride Antonio «non ce la facciamo». Gli italiani sono ben accetti in fabbrica. «Abbiamo legato molto con i colleghi serbi» racconta il metalmeccanico «ci chiamano fratelli. Ci hanno accolto davvero come tali e non ci sono invidie per il fatto che guadagniamo di più». I ritmi sulla catena di montaggio però sono serrati, come e forse più dell’Italia. In Serbia l’obiettivo è produrre 500 veicoli al giorno. Un numero che fa riflettere. Appena poco più basso dei circa 650 furgoni al giorno di quello che oggi realizza il più produttivo degli stabilimenti Stellantis in Italia, quello di Atessa, da più di un anno in affanno. E il pensiero corre a ciò che pensano in tanti tra i dipendenti. «Non è tanto il numero» dice rassegnato Antonio «è che adesso quello che si faceva in uno stabilimento solo in Italia, lo si divide con quelli all’estero». E se consiglierebbe la trasferta ai colleghi italiani Antonio conclude: «Si, come esperienza. Ma bisogna avere coraggio».