L'Abruzzo del miracolo economico

Quarant'anni fa il Financial Times battezzò un'era di benessere diffuso

L'Abruzzo dei campanili, che non si mette d'accordo nemmeno sulla pronuncia dei suoi cento e cento dialetti. Ma anche capace di far camminare un processo colossale di cambiamento tanto nel paesaggio urbano quanto nelle abitudini e stili di vita, mantenendo intatto il fascino di una regione verde dove l'orso, il camoscio e il falco regnano sovrani e la criminalità organizzata non trova varchi. L'Abruzzo dal mare ai monti è frantumato nelle torri dei suoi 305 municipi e compatto nei suoi simboli e nella difesa dei suoi valori; antico quanto i suoi borghi alle falde del Gran Sasso e della Maiella e giovane come le città costiere protese oltre Adriatico; ferito come L'Aquila distrutta dal terremoto e sontuoso quanto le boutique del lusso e i ristoranti alla moda della Pescara che vive di notte. Hanno provato in tanti a raccogliere, riordinare, codificare, dare un senso compiuto al mare magnum del «miracolo abruzzese» come lo chiamò il Financial Times, ci sono riusciti in pochi.

Giuseppe Mauro, docente di economia alla «D'Annunzio» racconta la nostra avventura, della crescita e del declino, di come il «miracolo» si è andato stemperando in uno sviluppo malato, e che oggi si ritrova a interpretare una realtà che ha tanta voglia di futuro e mille dubbi sul presente. Quella del professor Mauro è un'analisi che dà senso alla cronaca di questi ultimi anni, inquadra l'attualità nella direzione inesorabile della fine di un ciclo iniziato nel 1969/70 con le scelte di una classe dirigente lungimirante e la volontà di identificare la modernizzazione della regione con il passaggio da un'agricoltura antiquata alla grande industria.

Cinquant'anni fa l'Abruzzo veniva descritto così dal corrispondente del londinese Times in una inchiesta sull'Italia: «Regione del sud se il termine significa lontananza e miseria. Non ha praticamente industria e l'agricoltura è decisamente stravolta». E questa arretratezza, spiega il professor Mauro, si traduceva in una serie di indicatori di una comunità in povertà, gravata da centinaia di migliaia di disoccupati: reddito pro capite quaranta punti percentuali sotto la media nazionale, struttura produttiva composta al 37 per cento da un'agricoltura arretrata, impianti industriali relegati in qualche frantoio e nei pastifici (mulini), emigrazione ai massimi livelli. Un'altra era, un altro Abruzzo.

E' la fine del 1969, da lì al 1994 l'economia crescerà a passi mai visti, un quarto di secolo di accelerazione impetuosa che trasforma l'Abruzzo povero da profondo sud a regione con elevato tasso di industrializzazione in seguito alla nascita di grandi imprese che portano occupazione (la Fiat, la Sevel, l'Honda, la Piaggio, la Siv-Pilkinton, la Texas Instrunents poi Micron, l'Italtel, la Magneti Marelli, la Dompé, la Hoechst), alle dotazioni infrastrutturali simboleggiate dalle autostrade. Aumenta il reddito delle famiglie, circola benessere, si alza il livello e la qualità dei consumi, nel 1972 per la prima volta si registra un flusso migratorio di ritorno, una vera e propria età dell'oro.

Per il professor Mauro la modernizzazione della regione ha significato soprattutto una vigorosa inversione di rotta attraverso l'utilizzo di strumenti e metodi nuovi. In questo lo sviluppo abruzzese ha avuto una sua specificità, un trapasso autentico non assimilabile a un modello, in pratica una rivoluzione per giungere alla realtà socio economica degli anni 1980 e '90 e fino alle soglie del 2000. «Sono sostanzialmente tre gli attori di questa parabola dell'economia abruzzese. Il primo di origini storiche, per così dire, e cioè l'evoluzione della piccola impresa legata alle origini agricole, il mulino e la mezzadria trasformati in piccola impresa molto dinamica - il boom della pasta, De Cecco, Del Verde, Cocco; del tessile e abbigliamento, Brioni; della liquirizia, Saila; della pelletteria, dei mobili -. Il secondo, la grande industria, particolarmente l'impresa multinazionale, attratta da un crescente flusso di incentivi finanziari sia di origine comunitaria sia nazionali (Cassa per il Mezzogiorno). Una montagna di soldi, tra il 1970 e il 1994 l'Abruzzo utilizza somme quattro volte superiori al resto delle regioni meridionali, servita a calamitare investimenti industriali che hanno catapultato in regione capacità manageriali sconosciute ed hanno assicurato posti di lavoro e redditi maggiori alle famiglie».

Questo impressionante sforzo di crescita, prosegue Mauro, avvenne in virtù di una straordinaria capacità politica, o istituzionale. Nell'Abruzzo del boom si creò «una tensione, una coesione corale di ricostruzione che risvegliò coscienze e speranze, un'energia che forse non abbiamo più recuperato». Questa «dinamicità di governo» insolita «è il terzo attore del miracolo, riuscì ad intercettare risorse finanziarie ingenti altrimenti destinate ad altre aree come il Molise e la Puglia, per incentivare l'insediamento delle grosse realtà industriali, seppe creare fiducia intorno ad un progetto virtuoso di espansione economica. In una parola, la classe politica regionale guidò quel processo di sviluppo senza che si siano verificati fenomeni estorsivi nell'allocazione delle consistenti risorse. Sicuramente episodi di "clientelismo virtuoso", come è stato definito, perché capace di corrispondere e soddisfare esigenze generali».

Una mutazione che si riflette anche in chiave sociale, nella diffusione dei saperi: un territorio dai confini ristretti si ritrova tre università con facoltà scientifiche di alto profilo, una crescita esponenziale della scolarità, il centro di telecomunicazioni spaziali (Telespazio) nella Marsica, l'istituto di ricerca Mario Negri Sud nel chietino, il laboratorio di fisica nucleare sotto il Gran Sasso. «Altro riflesso di questo nuovo orizzonte sociale è la così chiamata "economia del Parchi" che si fa strada e determina una fonte di guadagno nei comuni delle aree protette, un turismo di qualità che comincia a manifestarsi con effetti positivi via via più evidenti».

«Un esempio della capacità attrattiva dell'Abruzzo è anche la nascita nel 1986 di questo giornale, il Centro, che è senz'altro un investimento. Ma come economista devo dire che è stato qualcosa di più: con il Centro per la prima volta sull'informazione non specificamente economica si è parlato non solo di licenziamenti e fabbriche che chiudono, ma anche di Pil, inflazione, export. Questo giornale è un punto di diffusione della conoscenza straordinario. Negli anni del boom non c'era una informazione così, ci stavamo sviluppando e non lo sapevamo».

L'Abruzzo oggi? Un alpinista davanti ad una nuova, dura salita: come vada a finire dipende dal suo grado di allenamento e dall'attrezzatura che ha. Il professor Mauro usa questa immagine montanara per rappresentare il momento. Il caso economico e sociale che ha attratto tanta ammirazione si trova alle prese con le mille difficoltà del presente, c'è una nebbia che avvolge tutto e sposta ogni volta più in là l'orizzonte della ripresa. Il declino cominciato dopo il 1994 con l'uscita dall'Obiettivo 1 e la fine degli incentivi europei, non si è ancora arrestato. «Questo dei mancati sostegni comunitari è uno dei fattori esterni che ha innescato il riflusso, perché con la fine degli incentivi è calato l'interesse imprenditoriale. Ma ci sono anche pesanti fattori interni: l'esplosione come non mai del debito regionale a livelli straordinari, oggi con un disavanzo del 14 per cento siamo la regione più indebitata d'Italia. La morale dunque è semplice: non ci sono più risorse da destinare allo sviluppo economico, e una regione priva di risorse è condannata ad una stabilizzazione verso il basso».

© RIPRODUZIONE RISERVATA