L’Aquila, «magnifica citade» perduta

Dalle origini alla caduta, Carlo De Matteis racconta una civiltà che non è più

Un pegno d’amore, un atto di memoria. «L’Aquila magnifica citade» è il titolo di un pregevole volume curato da Carlo De Matteis, docente di letteratura italiana contemporanea all’università dell’Aquila. E’ una definizione che rende bene la natura di quella che è stata per antonomasia la civitas nova regina d’Abruzzo, culla di cultura laica e religiosa, di arti e di mestieri raffinati. Il volume (L’Una, casa editrice dell’università dell’Aquila, 297 pagine) propone documenti originali e codici d’epoca inediti che raccontano la storia dell’Aquila, ed è impreziosito da un catalogo fotografico dei monumenti e delle basiliche, come erano prima del terremoto del 6 aprile 2009 e come appaiono oggi agli occhi di chi visita quei luoghi resi quasi irriconoscibili dai crolli. Completano l’opera le riflessioni demografiche e topografiche («La città e le sue rappresentazioni») dei professori Angiola De Matteis e Pierluigi Properzi arricchite da riproduzioni di piante del territorio urbano e dei suoi quartieri.

Le origini
con i 70 castelli

Il libro è una ricerca completa delle radici storiche della città. La sua nascita, scrive De Matteis, è preceduta da una lunga fase di incubazione, ma tra la lettera apostolica di papa Gregorio IX del 7 settembre 1229 - «rivolta a tutte le genti del territorio Amiternino-Forconese con la quale, nel confermare l’appartenenza delle loro terre alla Chiesa di Roma e l’esclusione di ogni diritto sulle stesse da parte del’imperatore, il Pontefice concede con “grazia speciale” che nella località di Accula venga costruita la nuova città» - e il Diploma di fondazione del 1254, emanato da Corrado IV di Svevia succeduto al padre Federico II, la nascita della città finalmente si compie unificando «circa settanta castelli del contado» (e non 99 come vorrebbe la leggenda) grazie ad un esplicito accordo tra la Chiesa e l’Imperatore in uno dei rari momenti di tregua del conflitto svevo-papale. «Tra le fonti della paternità di Corrado e della data di fondazione», scrive De Matteis, «vi è la cronaca in versi del poeta aquilano Buccio di Ranallo».

La Signoria
dei Camponeschi

La nascita della nuova città, la sua espansione e crescita di importanza nel Regno di Sicilia con l’elevazione a sede vescovile, viene a costituire un fatto di assoluta novità europea negli equilibri del conflitto tra papato e dinastia sveva per la successione al trono dopo la morte di Corrado IV. E’ una storia nella storia, accidentata e feroce nella quale guerre e tensioni politico-sociali si intrecciano e si alimentano. Il culmine, in questa fase sarà la distruzione dell’Aquila per mano di Manfredi di Svevia figlio naturale di Federico II appena cinque anni dopo la sua fondazione, e la sua riedificazione.
La realizzazione delle quattro porte fortificate, di Lavarete, della Rivera, di Bazzano e di Paganica sono i primi passi della resurrezione della città, ma l’opera che con la sua artistica monumentalità giunta intatta fino a noi vendicherà l’orgoglio ferito con le mura originarie rase al suolo da Manfredi, è la fontana della Rivera, le celebri 99 Cannelle edificate nel 1272 da Tancredi da Pentima. E’ la prima importante costruzione di cui si ha notizia, ma è l’inizio di un periodo di sviluppo impetuoso della città, anche nel campo delle arti. Siamo nella seconda metà del XIII secolo, e si possono cominciare ad ammirare le opere che si stavano edificando, come la chiesa di Collemaggio costruita per volontà del monaco Pietro da Morrone, dove sarà incoronato Papa col nome di Celestino V. Nel corso del secolo successivo, lotte interne tra i castelli fondatori e sanguinosi complotti tra le maggiori famiglie per il controllo politico della città dilanieranno per molti anni il tessuto sociale, fino alla supremazia della figura di Lalle Camponeschi. L’Aquila, sotto di lui si trasformò in Signoria e la governò «con astuzia e senza scrupoli per dieci anni», fino a che cadde vittima egli stesso di una congiura.

Il governo
delle Arti

Ma è il governo delle Arti (siamo alle soglie del Quattrocento, e in tutta Italia c’è l’avvento dei Comuni), l’affermazione cioè dei ceti produttivi della città, ad inaugurare un lungo dominio che si identifica per L’Aquila con una vera e propria età dell’oro. Sotto il governo delle Arti, L’Aquila non diventa soltanto economicamente ricca (che si dimostra nella qualità urbana, con la costruzione di palazzi di notevole valore architettonico), ma si trasforma in un centro culturale (in cui si distingue l’agire di un mercante gran mecenate, Jacopo di Notar Nanni) dove si sviluppa insieme una fioritura artistica, letteraria e commerciale, particolarmente nei settori della lana, della seta e della produzione agricola dello zafferano, e diventa celebre oltre i confini del Regno («Ed introduce precocemente tra le sue mura la nuova arte della stampa grazie all’allievo di Gutemberg, Adam Rotwill»). E’ anche il momento eroico della resistenza alle scorrerie del capitano di ventura Braccio da Montone. Una lotta per la sopravvivenza, Braccio da Montone ne esce sconfitto e L’Aquila si avvia ad un secondo Rinascimento. Alla fine del secolo ospita artisti che lasceranno opere, sculture, dipinti, e pensatori religiosi di prim’ordine, come Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano, Giacomo della Marca.
Durante l’ultima fase della dinastia aragonese, L’Aquila raggiunge il massimo splendore, ma non passeranno molti anni che nel quadro della guerra franco-spagnola per il dominio dell’Italia entrerà in conflitto con la Spagna. L’Aquila, sotto il punto di vista militare, era impreparata ad una guerra contro una potenza come la Spagna, venne sconfitta e conquistata. Questo drammatico passaggio della storia cittadina segna l’inizio di una lunga fase discendente ed è scandito dalla costruzione del Castello, denominato appunto spagnolo, eretto come monito dell’asservimento della città.

I terremoti
L’Aquila fu, non è

La storia dell’Aquila, ci ricorda il volume di De Matteis, è anche una guerra continua con i terremoti, fatta di apocalittiche distruzioni e lutti dolorosi, ma anche di superbe rinascite. Del terremoto più devastante, quello del 2 febbraio del 1703, il marchese Matteo Garofalo, inviato dal vicerè spagnolo, ebbe a scrivere: «La città dell’Aquila fu, non è; non so che altro posso dire per accreditare una città tutta rovine». Ma neanche quella volta è stata la fine, L’Aquila tornerà a rimodellarsi in forme architettoniche nuove e più maestose e resisterà, bellissima, fino al 6 aprile del 2009.
L’eredità di questa «Magnifica citade», oggi in ginocchio, è, prima ancora che nelle cose materiali che ci ha lasciato, nel suo spirito. In quel perenne ricomporsi dopo ogni catastrofe che sta suggellato nel motto della città Immota manet. Scrive nella prefazione al libro il rettore dell’università dell’Aquila, Ferdinando di Orio: «Le ragioni della ricostruzione della città dell’Aquila vanno sicuramente cercate nel tempo presente. Ma questa ricerca sarebbe parziale e incapace di individuare la vera identità della città se non guardasse anche al tempo passato. Leggendo queste pagine così ricche di fatti, uomini e miti, ci prende tutti noi che amiamo la nostra città dell’Aquila un lieve e dolcissimo sentimento di nostalgia per ciò che era e che non sarà più. Eppure, proprio da queste pagine deriva una speranza ancora più forte e consapevole, nella presa d’atto, storicamente definita, delle mille resurrezioni di una città, caduta e riemersa dalle sue macerie sempre più bella, perché capace di non smarrirne la memoria, e quindi l’identità».

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