L’Europa e il crollo del Muro

Effetti a catena nei Paesi ex comunisti. La politica cambiò anche in Italia.

Si è soliti ritenere che l’evento simbolicamente più significativo che sancì la fine della guerra fredda fu rappresentato dal crollo del Muro di Berlino.

E, non v’è dubbio che l’opinione pubblica mondiale scorgesse allora e continua a vedere ancora oggi nella caduta del muro, crollato sotto la pressione delle manifestazioni popolari della parte est di Berlino, la dissoluzione del blocco sovietico e con essa la fine della divisione imposta ai paesi e alle popolazioni europee dalla politica di spartizione delle zone d’influenza. Del resto, con la costruzione del muro (13 agosto 1961) e con la chiusura della frontiera aperta tra la parte occidentale e quella orientale di Berlino, la Repubblica democratica tedesca aveva non solo mirato ad arrestare la grave emorragia migratoria verso la Germania federale, quanto aveva inteso obbligare con la forza, mediante quella sorta di bastione ermetico che aveva innalzato, la popolazione ad accettare la dittatura comunista.

Ma, ciò su cui bisogna maggiormente insistere, perché si possano comprendere meglio le ragioni del forte valore simbolico attribuito al crollo del muro, è che la sua costruzione e le drastiche misure repressive adottate dalla Rdt verso chi tentava la fuga nell’altra Germania acuirono, agli inizi degli anni Sessanta, la portata del problema tedesco, che lo sviluppo dei rapporti internazionali aveva drammaticamente risolto nella spartizione e nella nascita (1949) di due Stati tedeschi, e resero ancora più forti le tensioni tra i due blocchi contrapposti, determinando un nuovo picco della guerra fredda. Nei decenni seguenti, questa guerra attraversò fasi alterne di tensione e di distensione.

A metà degli anni Ottanta, nel quadro di una nuova fase di distensione internazionale, che trovò nel leader sovietico Michail Gorbaciov, il convinto fautore di un disegno economico-politico, fondato sulla trasformazione (perestrojka) del regime e del sistema produttivo sovietico e sulla trasparenza (glasnost) politica, che contemplava la possibilità della riconsiderazione dei rapporti di politica internazionale, si assistette all’allentarsi dei legami dell’Urss con i Paesi satelliti ad esso assoggettati e all’avvio di un coevo processo di delegittimazione dei gruppi dirigenti comunisti delle democrazie popolari.

Nel volgere di un breve lasso di tempo, il sistema sovietico si disgregò, ponendo così fine alla rigida bipolarità dell’ordine mondiale. Il primo Paese a trarre vantaggio dalla disfacimento del vecchio sistema bipolare fu la Polonia, dove il generale Jarulzelski affidò, nel giugno del 1989, a Lech Walesa, il fondatore di Solidarnos´c´, il movimento di ispirazione cattolica che aveva già scosso dalle fondamenta il regime, l’incarico di formare il nuovo governo. Nei mesi seguenti, i regimi comunisti di Ungheria, Bulgaria e Cecoslovacchia caddero a uno a uno, per fortuna in modo pacifico, mentre in Romania la rivolta popolare culminò nella esecuzione sommaria di Ceausescu e della moglie.

In quella fase, contraddistinta da alcuni momenti di forte intensità simbolica (riabilitazione di Dubcek a Praga; solenni onoranze funebri rese a Budapest a Imre Nagy, l’eroe del 1956) il crollo del Muro di Berlino, avvenuto tra il 9 e il 10 novembre 1989, ponendo di fatto fine alla Germania democratica, assurse a evento simbolo per eccellenza. La caduta del muro segnò una svolta storica epocale non solo per la Germania, alla quale si aprirono, quasi all’improvviso, le porte di una insperata riunificazione, ma per tutta l’Europa, che vide finalmente concludersi il più lungo dopoguerra della sua storia, cessando di essere la principale area di confronto fra le due grandi potenze. Nel giro di un paio d’anni, la mappa geopolitica dell’Europa uscì profondamente modificata.

L’intero universo comunista fu investito da una serie di movimenti: la rivoluzione di velluto sancì la divisione della Cecoslovacchia in due repubbliche; la crisi politica, la guerra civile e la «pulizia etnica» portarono alla disintegrazione della Confederazione jugoslava; il regime comunista dell’Albania, che dopo la morte di Hoxha (1985) era rimasto in uno stato di immobile isolamento, si sfaldò; le tensioni nazionalistiche, i contrasti etnici e la crisi strutturale accelerarono il processo di dissoluzione dell’Urss che, dopo il fallito putsch comunista, si sciolse nel 1992 e fu sostituita da una evanescente Comunità di Stati indipendenti, che si mostrò incapace a ricoprire un ruolo di superpotenza; in Russia l’antica tradizione nazionale del Paese riprese forza, mentre la Chiesa ortodossa, forte della profonda tradizione religiosa del popolo appena scalfita dalla prevaricazione del regime, manifestò energie davvero inaspettate; i Paesi ex-satelliti di Mosca, divenuti indipendenti e trasformatisi in regimi liberal-democratici, tesero sempre più a gravitare sull’Occidente, a integrarsi con esso e a porre le premesse per la formazione di una nuova Europa.

La crisi del sistema comunista e la rapidità con la quale esso crollò alimentarono l’idea del fallimento di tutte le forme del socialismo reale e le speranze di una nuova alba della storia umana. Né la caduta del comunismo, con le sue importanti implicazioni di politica internazionale (la nascita di un nuovo ordine mondiale, che fece sperare agli Usa di realizzare l’antico sogno di leadership globale) ebbe effetti sui soli Paesi che avevano fatto parte del blocco sovietico. In Italia, ad esempio, che era stata terra di confine tra i due sistemi, e che, per la presenza del più grande Partito comunista dell’Europa occidentale, dotato di una forte base ideologica e di una articolata struttura organizzativa, era stata attraversata al suo interno da questo confine, le conseguenze del crollo del Muro di Berlino furono maggiori che altrove.

L’Italia fu, infatti, travagliata da una grave crisi politica, che non solo coinvolse il Pci, che, abbandonati i riferimenti al comunismo, si trasformò in un partito socialdemocratico (Pds), dai contorni invero non ben definiti, intessuti di kennedismo e di tradizionalismo comunista riveduto e corretto, dal cui seno si staccò il gruppo di Rifondazione comunista, che, a sua volta, individuò in un vago ideale di comunismo l’elemento comune alle due ali che lo componevano, ma attanagliò anche gli altri partiti socialisti italiani, che furono sottoposti a una dura critica, soprattutto in relazione ai loro programmi di pianificazione economica, nei quali si volle scorgere la presenza di forme tipiche dell’economia collettiva o solidaristica. In realtà, ad essere coinvolta fu tutta la sinistra italiana, che, caduta in una grave crisi d’identità, avvertì, dinanzi al rapido succedersi degli avvenimenti in Europa e al mutarsi del panorama politico internazionale, in misura ancora più pressante, la necessità di una profonda trasformazione, il cui lento processo, per molti aspetti, può ritenersi non ancora del tutto compiuto.

Ma, forse, l’effetto più dirompente che il crollo del Muro di Berlino determinò nel mondo politico italiano fu la scomparsa della Democrazia cristiana, la cui politica, fondata sul ricorso al clientelismo e alla corruzione, tollerata durante il periodo della guerra fredda, perché nel partito si scorgeva il principale baluardo contro l’avanzata del comunismo in Italia, fu sottoposta, dopo il 1989, a una severa condanna, anche da parte del Vaticano. Di modo che, appare evidente che fino a quando la situazione internazionale fu segnata dalla contrapposizione tra i due blocchi e l’Europa fu divisa dalla cortina di ferro, i delicati equilibri del sistema politico italiano furono sorretti da decisivi contrappesi garantiti dai Paesi alleati, che però vennero meno con il crollo del comunismo e con la conseguente accelerazione del processo di unificazione europea.

Le forze sociali ed economiche, che avevano costituito e sostenuto nel Paese il blocco di potere democristiano, venute meno le ragioni l’interesse cioè a fronteggiare il pericolo del Pci e in genere del comunismo che lo avevano tenuto insieme, si indirizzarono allora verso nuove alleanze. Il terremoto politico registratosi in Italia, reso ancora più acuto dall’incapacità dei partiti a rinnovarsi e dall’inchiesta «manipulite», che, condotta dalla magistratura, evidenziò la radicata corruzione vigente nel sistema dei partiti, la grave crisi finanziaria che si abbatté sulla penisola, le tendenze corporative e gli striscianti rischi separatistici, la cosiddetta fine delle ideologie, furono tutti elementi che sembravano, di primo acchito, assimilare la situazione italiana a quella dei Paesi usciti dal lungo tunnel del regime comunista.

Non era, ovviamente, così. Non si trattava, infatti, della fine di un regime totalitario, che aveva permeato in modo oppressivo la vita economica e sociale, quanto piuttosto il tramonto, originato da un insieme di cause ideologiche, politiche ed economiche emerse appieno dopo la caduta del muro, del sistema dei partiti di massa, nato nel dopoguerra da profonde esigenze della società italiana. Un sistema, che, certo, appariva ormai sclerotizzato e bisognevole di un radicale rinnovamento, ma che aveva garantito agli italiani la tutela delle libertà individuali, aveva salvaguardato le libertà politiche e assicurato quella d’informazione.