La donna, l’arte e gli anni ’70

Tra femminismo e politica alla Galleria nazionale di Roma

Nella prefazione a Il ritratto di Dorian Gray Oscar Wilde scrive: «Tutta l’arte è completamente inutile». L’arte intesa come culto della forma e del bello, l’arte fine a se stessa. Un’affermazione che continua a far discutere. Certo è che nel tempo distratto e veloce di oggi l’arte acquista una dimensione universalmente riconosciuta solo quando le si attribuisce un valore economico oppure quando riesce a occupare il centro della scena mediatica. Non è stato sempre così. Non era così per esempio all’inizio degli anni Settanta del secolo breve, quando l’arte, attraverso la performance o l’occupazione fisica di spazi e luoghi, irrompeva prorompente sulla scena sociale e politica oltre che culturale. La mostra «Donna.

Avanguardia femminista negli anni ’70», proposta dalla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, offre di tutto questo una grande testimonianza storica. Oltre duecento opere, per lo più fotografie in bianco e nero e video, di diciassette artiste che proprio in quegli anni hanno posto al centro dell’indagine conoscitiva e della propria arte, da assoluta avanguardia, la donna e la sua identità, sottraendo il corpo della donna a una funzione puramente decorativa o nel migliore dei casi a una semplice e univoca idealizzazione estetica.

Le artiste in mostra Helena Almeida, Eleanor Antin, Renate Bertlmann, Valie Export, Birgit Jörgenssen, Leslie Labowitz, Suzanne Lacy, Suzy Lake, Ketty La Rocca, Ana Mendieta, Martha Rosler, Cindy Sherman, Annegret, Hannah Wilke, Martha Wilson, Francesca Woodman, Nil Yalter con le loro opere e la propria storia, tutte riconducibili agli anni Settanta, ossia al cuore della stagione femminista, offrono lo spunto per una riflessione su un terreno oggi molto accidentato: l’identità e il corpo della donna nella società contemporanea. «Che cosa hanno in comune le artiste di questa mostra?», si chiede retoricamente Gabriele Schor, una delle curatrici della mostra, direttrice e chief curator della Sammlung Verbund di Vienna, la più grande impresa elettrica austriaca che ha commissionato proprio alla Schor la creazione di una propria corporate art collection che esordisce in Italia con questa mostra.

«Quello che unisce le artiste è una coscienza collettiva (...) Una delle conquiste più importanti dell’avanguardia femminista fu quella di decostruire, attraverso questa consapevolezza collettiva che le univa, l’immagine della donna. Un’immagine che attraverso i secoli era stata investita di proiezioni, stereotipi, nostalgia e desideri maschili, in parte anche grazie agli artisti. L’avanguardia femminista riuscì a dissolvere questo rapporto a senso unico tra soggetto e oggetto in una molteplicità d’identità e di costruzioni identitarie. Queste donne riuscirono dunque a dare un significato del tutto inatteso alle parole di Nietzsche sul rovesciamento dei valori: si misero in cammino invece di farsi belle».

Un cammino che non è ancora terminato, fatto di provocazione e di sfide, per spostare sempre più in avanti l’asticella e sfidare apertamente il perbenismo e l’ipocrisia della cultura dominante. Come leggere altrimenti Aktionshose: Genitalpanik di Valie Export del 1969, con l’artista austriaca nei pressi di un cinema porno, pantalone con apertura a taglio triangolare in corrispondenza del pube, esibito più che mostrato, nudo, che imbracciando un mitra «costringe» i maschi frequentatori della sala a confrontarsi con un corpo vero di donna piuttosto che con la finzione cinematografica?

Certo, non si fa bella e non vuole proporre il suo corpo, in questo caso la faccia, in versione modella, Ana Mendieta nel lavoro Untitled (Variazioni cosmetiche facciali) del 1972. Trentasei pose in cui l’artista cubana preme il suo corpo contro un pezzo di plexiglass deformando e trasfigurando in questo modo la sua figura.
Nil Yalter, nata al Cairo alla fine degli anni Trenta, intraprende un cammino artistico che ha come obiettivo l’emancipazione e l’autodeterminazione sessuale della donna nella cultura mussulmana. Antesignana della performance come espressione dell’arte nelle sue opere, l’artista «tematizza i conflitti etnici e culturali legati all’appartenenza di genere e all’identità». Una delle opere esposte è La femme sans tete ou La danse du ventre. «Il primo video dell’artista si incentrava sul divieto di autodeterminazione sessuale della donna nella cultura mussulmana.

Con un lapis nero, attorno al suo ombellico e poi linearmente, Nil Yalter scriveva un testo dell’etnologo e storico della cultura occitana e della poesia trobadorica René Nelli (...) Con l’addome così istoriato, Nil Yalter esegue una danza del ventre su una musica turca tradizionale (...) Nel 1977, portando avanti le istanze femministe, Nil Yalter spiegò che in alcune regioni rurali della Turchia il marito aveva ancora il diritto di trascinare la moglie «infeconda o riottosa» davanti all’Imam - l’autorità religiosa del villaggio - «che le tracciava sul ventre in caratteri cirillici una formula esorcistica». L’arte quindi che traspone e trasforma un gesto della vita reale per farne un elemento di conoscenza e di denuncia.

Di diversa natura e dimensione la performance del 1978 che Suzanne Lacy e Leslie Labowitz tennero a Los Angeles. Qui si assiste a una pièce teatrale che prevede l’utilizzo di molti personaggi. L’evento scatenante era stata la violenza sessuale con il conseguente omicidio di diverse donne tra l’ottobre e il novembre 1977 a Los Angeles, assieme ai pregiudizi sessuali che i media introdussero nel racconto. La performance, che riunì 70 donne, dieci delle quali attrici professioniste, ebbe un successo clamoroso tanto che le artiste furono invitate in televisione per illustrarne i contenuti. Con il ricavato di quelle partecipazioni televisive, circa centomila dollari, le due artiste americane finanziarono corsi di autodifesa per le donne.

Una mostra, che forse è più giusto definire un percorso conoscitivo ed educativo, che aiuta a riflettere sugli stereotipi della condizione femminile nella società contemporanea. Sulla parità di genere che non pone quasi mai sullo stesso piano e in leale competizione uomini e donne. «Perché non ci sono mai state grandi artiste donne?» si chiede nel 1971 Linda Nochlin, come ricorda Gabriel Schor nel saggio introduttivo del catalogo che accompagna la mostra. «Il difetto non è in una nostra predestinazione, nei nostri ormoni, nei nostri cicli mestruali, o negli spazi vuoti del nostro apparato genitale, ma nelle istituzioni e nell’educazione che riceviamo - intendendo per educazione tutto ciò che accade dal momento in cui, testa in avanti, entriamo in questo mondo di simboli, indicazioni e segnali pieni di significato».

Le circa duecento opere esposte a Roma rappresentano una sorta di riscatto dell’universo femminile in un tempo che vede sempre più spesso il corpo delle donne rappresentato in un’unica dimensione: quella del desiderio sessuale attraverso la mercificazione del corpo. Un riscatto del corpo quindi, e della mente.
Dove Galleria nazionale d’arte moderna, Roma.
Orari Da martedì a domenica dalle 8,30 alle 19,30.
Info www.gnam.beniculturali.it.

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