La vera storia di Chichiarelli, il falsario abruzzese: dalla Banda della Magliana al colossale colpo in banca

Nato a Magliano de’ Marsi, visse da criminale a Roma dove fu ucciso nel 1984. Nella sua vita trafficò falsi d’autore: suo il finto comunicato che annunciava la morte di Moro
La bocca che quasi scompare sotto i baffi, la fronte larga e gli occhi bassi su cui le sopracciglia disegnano un arco arcigno. I capelli schiacciati in testa e gonfi ai lati. Lo sguardo insondabile. La matita abbozza così un identikit e prova a definire l’immagine di Antonio “Tony” Chichiarelli, l’abruzzese che negli anni ’70 e ’80 legò il suo nome alla Banda della Magliana passando alle cronache come Il falsario. Di De Chirico, tra gli altri: la sua vita non fu surreale ma impalpabile come i quadri del maestro di Volos, come guardare Ettore e Andromaca restando suggestionati da un linguaggio impossibile da codificare. La storia di Chichiarelli è così: fitta di misteri che sono labirinti in cui volersi perdere, ma senza mai trovare una via d’uscita.
La sua morte è un mistero raccontato da due fonti. Una smentisce l’altra. Si sa che è stato ucciso in un agguato con tre colpi di pistola mentre era con la compagna e il figlio di appena un mese, ma non si conosce né l’assassino né il mandante; si sa quando è avvenuto l’agguato – la notte tra il 27 e il 28 settembre 1984, alle 2.45 – ma non è ancora ben chiaro dove. Nella sua cassaforte, nella casa perquisita dopo l’omicidio, c’erano 37 milioni di lire, gioielli, due pistole, una videocassetta, delle polaroid con impresse le immagini di Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse. Nella giacca con cui morì non c’erano documenti ma un tesserino che diceva “Critico d’arte”. E per la convivente Cristina, l’ultima compagna, Chichiarelli era questo. Un mercante di quadri preso dagli affari. Saranno le perquisizioni successive a far venire a galla tutto il resto: le prove delle sue attività criminali, la fitta rete di contatti con la malavita, le armi. E un nastro con lo Speciale del Tg1 dedicato al grande colpo alla Brink’s Securmark, “la rapina del secolo”.
Nato a Rosciolo, una frazione di Magliano de’ Marsi, nel 1948, era già un nome noto alle forze dell’ordine quando dall’età di vent’anni si iniziò a macchiare di piccoli crimini e già nel paese alcuni voci sospettano che abbia rubato due dipinti da una chiesa medievale, per poi riprodurli. Prima di spegnere dodici candeline aveva già perso la madre e due fratellini. A scuola andava male, disegno e arte sono le uniche materie in cui prende la sufficienza negli anni degli studi all’Aquila, e la sua storia resta arroccata sull’Appennino abruzzese fino al 1969, anno in cui viene congedato dal servizio di leva e parte alla volta di Roma. Se fosse un film, questo sarebbe il turning point, il momento della svolta. I nomi che verranno fuori dalla perquisizione della sua abitazione capitolina sono quelli della Roma criminale: ci sono esponenti dell’estremismo neofascista (Nar) e della Magliana, i vertici delle organizzazioni paramilitari come Giuseppe Santovito e Amos Spiazzi. Sono gli incontri di vent’anni persi nel dedalo della città eterna.
GLI INIZI E IL CASO MORO
I furti dei primi anni, quando gira senza un soldo per i quartieri della capitale, lo conducono a Regina Coeli. E i corridoi di Regina Coeli lo portano da Danilo Abbruciati, futuro capo della Banda della Magliana. Così nel 1976, quando nasce la Banda, Chichiarelli è subito nel giro. Per Abbruciati si arrabatta tra spaccio di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapine, usura, riciclaggio, scommesse clandestine, estorsioni; per Chiara Zossolo, futura moglie e proprietaria di una galleria d’arte a Trastevere, inizia a muoversi nel mercato della compravendita di dipinti, realizza e vende falsi d’autore. Pensa a un suo laboratorio, infine apre un negozio di mobili appena un anno più tardi. E qui produce un falso tutto diverso: il Comunicato numero 7 delle Brigate Rosse, uno dei massimi casi di depistaggio della storia italiana. È il 18 aprile 1978. Alle 9 del mattino nella redazione de Il Messaggero una telefonata anonima segnala un biglietto delle Brigate Rosse infilato in un cestino dei rifiuti di piazza Gioacchino Belli. Nell’Italia che da un mese vive il terrore del rapimento di Aldo Moro, arriva un messaggio: «Il corpo del Presidente è nei fondali del lago della Duchessa», al confine del Lazio con l’Abruzzo. I cinque processi legati al caso Moro accerteranno poi che fu proprio Chichiarelli a realizzare materialmente il falso comunicato, forse un diversivo per dare spazio e tempo ai brigatisti di traslocare da via Gradoli, mentre le forze dell’ordine indagavano altrove. Ma non hanno mai potuto spiegare, quei processi, il perché di quel messaggio. Vale a dire: chi era il mandante? Un piccolo falsario ficcato da una manciata di mesi nelle maglie della criminalità non ha agito da solo, ma nella breve storia di Cichiarelli si può soltanto dire ciò che non è stato.
il grande colpo
La mattina del 24 marzo 1984 le strade di Roma sono bloccate dal corteo indetto dalla Cgil insieme al Pci per protestare contro il taglio della scala mobile, voluta dal Psi di Craxi. È una manifestazione partecipata, che raccoglie più di 500mila persone e convoglia le forze dell’ordine nelle zone di interesse dello sciopero. E il deposito-caveau della Brink’s Company – una società di trasporto valori – sull’Aurelia diventa più facile da svaligiare. Se poche settimane più tardi il mercato immobiliare della capitale sarà un po’ più florido è perché da quel caveau Chichiarelli riuscirà a tirar fuori circa 37 miliardi tra denaro liquido, traveller's cheque, lingotti d’oro e preziosi. Sul bancone della Brink restano invece oggetti che assurgono a simboli dell’impresa: una granata “Energa”, sette proiettili calibro 7,62, sette piccole catene e sette chiavi. Oggetti che diventano codici, messaggi. E poi i falsi volantini, le polaroid con i guardiani del caveau legati davanti al drappo dei brigatisti, a rivendicare il gesto – ma gli esperti riconoscono subito il falso. Ad aprire le porte del caveau fu la guardia di turno, Franco Parsi, un malcapitato coinvolto nell’operazione, suo malgrado, dalla sera di due giorni prima, sabato 23. È sera, l’uomo sta rincasando e non tornerà al deposito prima di lunedì. Quattro uomini con il volto coperto da maschere lo prelevano, entrano in casa sua, prendono in ostaggio la famiglia. Dicono di essere un commando delle Brigate Rosse. Arriva l’alba dopo la notte più lunga, Chichiarelli e i suoi si dividono: uno di loro resterà a guardia dei famigliari di Parsi, perché non fuggano a denunciare; gli altri porteranno la guardia al caveau e si faranno spalancare le porte della cassaforte. Qui, disarmati tutti gli agenti e senza sparare un colpo, l’operazione andrà come Chichiarelli l’aveva pensata. E rimbalzerà sulle cronache nazionali: il falsario conserverà nella cassaforte la vhs con il servizio passato alla televisione.
la morte di pecorelli
La sera del 20 marzo 1979 in via Tacito rimbombano quattro colpi di pistola. E il corpo del giornalista Carmine Pecorelli, cinquant’anni, si accascia in un’automobile. Il suo Osservatore politico smette di pubblicare, nei giorni in cui scavava contro il governo Andreotti per scoprire i retroscena sul sequestro Moro. Per questo Chichiarelli spiegò di conoscere il vero motivo della sua morte: «Pecorelli», raccontò a sua moglie, «è stato ucciso perché aveva appurato cose sul sequestro: era un brav’uomo e non meritava purtroppo di morire». L’ombra di Chichiarelli si è mossa per giorni come uno spettro dietro Pecorelli: Franca Mangiavacca, segretaria e ultima compagna del giornalista, lo riconobbe come l’uomo che li pedinava nelle ore precedenti all’omicidio.
la fine
C’è un’altra foto, insieme alle tante polaroid che raccontano l’orrore di quegli anni. Si vede una donna con l’occhio sinistro perforato da un proiettile che le fa un tunnel nel cranio. Accanto c’è una Mercedes 190 macchiata di sangue e poco più avanti un uomo appena morto, Chichiarelli. La donna è sua moglie, che infine, malconcia, si salva. Chichiarelli invece muore a 36 anni, alle sette del mattino. Ma gli inquirenti stabiliscono che, raggiunto per strada dai proiettili, accasciato al suolo, era ancora vivo. Come una sorta di Principe Andrej, ascoltava ovattato il pianto del figlio guardando il cielo di Roma e sapeva che la sua storia era finita.
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