La modernizzazione della regione chiude l’era della «guerra fredda» tra Dc e Pci. L’economia dei Parchi

Le «larghe intese» nacquero qui

Abruzzo 1977, Costantino Felice: la svolta politica che accelerò la crescita

Nei quarant'anni della Regione Abruzzo si intrecciano almeno quattro storie: quella istituzionale, della crescita economica, del progresso sociale e infine di una originale maturità politica. Non male. Mezzo secolo fa in pochi avrebbero immaginato una rinascita epocale di questo territorio e la sua gente, sorprendente per ampiezza e rapidità, che ha ridisegnato anche la geografia socio-economica italiana. Quegli anni sono stati tutto questo. Ma anche molto altro, verrebbe da aggiungere.

In primo luogo, quando l'Abruzzo si presenta davanti ai primi gradini della modernizzazione, ha alle spalle la storia di una regione agricola che sperimenta con drammaticità la transizione dal latifondo di rendita e improduttivo alla terra per i contadini - cronache che hanno commosso l'Italia sono state scritte sulle tragiche giornate di lotta per la riforma agraria nel Fucino, gli scioperi alla rovescio nella Val Pescara per il piano del lavoro, la costruzione delle centrali elettriche nella Val Vomano - e poi l'autunno caldo, tempi politicamente frenetici e partecipati.

«Allora, volete sapere un capitolo di storia affascinante di questa regione?». Prende dalla tasca della giacca i suoi appunti, il professore. Appunti su fogli di carta bianca pieni di numeri e ripiegati come a creare le pagine di un libro, forse sta iniziando un nuovo saggio. Il professore è Costantino Felice, insegna storia alla D'Annunzio. Il racconto, questo flashback, incomincia. Felice ha una tesi: «Il dato di fatto è che l'Abruzzo costituisce un caso riuscito di modello di sviluppo, il cosiddetto miracolo. Ma il motore principale di quel processo straordinario, il pilastro e l'elemento distintivo, è un grande protagonismo di massa che ha determinato le scelte che si sono fatte». E spiega: «All'anticamera del boom economico l'Abruzzo arriva in una condizione di notevole fermento, culturale, politico. Con l'autunno caldo si erano sviluppati dei movimenti naturali nelle fabbriche, nelle scuole. E' questo tipo di società civile, motivata e attenta alle questioni sociali, che nelle sue diverse connotazioni rappresenta ciò che io chiamo un grande protagonismo di massa».

Il professore interrompe la narrazione, fa una lunga pausa. Vuole che venga ben compreso il concetto che ha espresso. Che dentro quella definizione, che oggi forse suona di cose antiche, c'è la passione civile di un popolo, ci sono i valori di una cultura che ha spinto per attraversare le frontiere della modernità.  Poi riprende: «La classe politica è l'altro pilastro di questo processo. Io sono di questo avviso: la Democrazia cristiana in Abruzzo era un grande partito, e così anche la più rappresentativa forza di opposizione, il Partito comunista. L'errore più ricorrente che si fa nell'analisi politica di quegli anni è che la Dc abruzzese si identifica con Remo Gaspari. Invece, la Balena bianca qui era un partito assai articolato con una dialettica interna forte e vivace. La più vistosa quella tra Gaspari e Lorenzo Natali, aquilano di origini toscane, uno stile notevole che nel 1976 fu mandato a Bruxelles quale responsabile dell'agricoltura nella Commissione europea. Tra loro c'era tutta una competizione che riguardava l'Abruzzo costiero e le zone interne, con ripercussioni a vari livelli, nelle scelte industriali e in quelle autostradali, le famose bretelle dell'A25, una verso Pescara e l'altra verso L'Aquila e poi Teramo.

Quella competizione non è stato un ostacolo al processo di crescita del territorio regionale, ne costituiva viceversa un fattore positivo, efficace perché faceva forza sulla soddisfazione di interessi collettivi e non di convenienze particolari».  «E non esisteva soltanto la diarchia Gaspari-Natali, c'erano altri uomini di pensiero e di azione di spicco nella Dc, che non era il partito di un capo solo al comando, esprimeva una leadership diffusa e molto consapevole. Uomini come Ugo Crescenzi, di uno spessore culturale non comune e fine politico, Emilio Mattucci, Antonio Tancredi, Gaetano Novello, il sulmonese Giuseppe Bolino, allievo di Giuseppe Capograssi, che ha guidato il processo di costruzione della Regione, la elaborazione dello Statuto. Sono tutti personaggi con un solido bagaglio di studi, la loro scuola di pensiero è la dottrina sociale della Chiesa che li porta vicini alla gente, a dialogare con i movimenti della società civile, e allo stesso tempo sanno delineare delle prospettive di crescita e di sviluppo.

Tutto questo faceva della Dc abruzzese un grande partito di massa, che dava fiducia e conquistava voti da maggioranze assolute, di vedute aperte che lo portavano al confronto operativo con l'opposizione, il Pci che fu l'altra faccia della medaglia. Aveva un gruppo dirigente autorevole, fatto di gente che veniva dalla Resistenza, che si era formata nelle lotte contadine e per le centrali idroelettriche, come Attilio Esposto, Luigi Sandirocco, Federico Brini, Giuliana Valente, Arnaldo Di Giovanni, Giorgio Massarotti, Tonino Corneli, erano uomini e donne di notevole elevatura, avevano guidato movimenti di massa. Con la Dc si scontravano però dialogavano, non concepivano l'arida contrapposizione ideologica. Collaborarono nelle scelte di fondo che sul piano istituzionale portarono a delle soluzioni avanzate dando un'identità forte alla Regione Abruzzo. Lo Statuto votato all'unanimità, la Carta fondamentale, è d'avanguardia perché non solo disegna l'ordinamento istituzionale ma traccia le linee dello sviluppo economico e civile, si propone di superare gli squilibri, le contraddizioni del territorio.

Le cose migliori si sono fatte in Abruzzo nel clima delle larghe intese degli anni '70 e l'inizio degli '80, e che si spegne via via che viene a mancare questa classe dirigente ed emerge un altro ceto politico, che non è più dello stesso livello».  «Gli anni delle larghe intese segnano anche l'epoca dell'industrializzazione in cui l'Abruzzo cresce a ritmi che superano quelli della Lombardia e stupisce l'Europa. Determinanti in questo progredire saranno le interrelazioni che si definiscono di volta in volta tra il ceto politico, la classe dirigente nel suo complesso, e il protagonismo della società civile, la sua volontà di partecipazione. Questa combinazione è un marchio politico di originalità tutto abruzzese».

L'esempio che fa scuola, spiega il professor Felice, è l'industrializzazione della Valle del Sangro. «La Cassa per il Mezzogiorno - erogatrice di incentivi alle imprese che localizzavano nel sud - era per la creazione di un polo petrolchimico, in linea con le scelte nazionali di quel periodo e in contrapposizione a insediamenti industriali siderurgici. Per la messa in cantiere del progetto Cassmez, la Dc in Abruzzo fonda una società, la Sangrochimica, con il sostegno delle multinazionali Usa, che dovrebbe impiantare una gigantesca raffineria nella Val di Sangro. Questo disegno viene sconfitto da un grande movimento di massa che vi si oppone con manifestazioni di piazza per impedire quel tipo di insediamento, e che durano anni: c'è il partito d'opposizione ma soprattutto c'è una moblitazione della società civile, i contadini, i coltivatori, gli ambientalisti, ma c'è anche la stessa Dc con le sue organizzazioni di base e territoriali. Succede oggi qualcosa di simile contro gli impianti di perforazione. Il progetto Sangrochimica viene stoppato e prevale l'alternativa Fiat con la Sevel, che dopo richiama la Piaggio e la Honda e si realizza così una industrializzazione che si armonizza con i valori dell'ambiente. Fu lì che si decise il modello di sviluppo abruzzese, se avesse prevalso la raffineria ora avremmo una cattedrale nel deserto come la Sicilia e la Sardegna».

«C'è il protagonismo dei movimenti che torna sempre, fin dai tempi della riforma agraria decisa dalle lotte sul campo. Così nella scelta dell'Abruzzo regione verde. I parchi si sono fatti perché ci sono state mobilitazioni su un'idea ecologista successivamente penetrata anche nelle forze politiche. Non è un paradosso azzardato, ma anche nella definizione dell'istituto regionale dopo le elezioni del 7 maggio 1970, le manifestazioni popolari a Pescara e all'Aquila per il capoluogo, contapponendosi ai partiti, sono state emanazioni di questo protagonismo sociale. Le lotte per il capoluogo, cioè per il primato di una città, che a livello superficiale vengono lette con timore come una forma di municipalismo arretrata, sono considerate da osservatori più attenti espressioni di un "particolarismo come risorsa". Perchè alla fine, la soluzione adottata a livello statutario con capoluogo L'Aquila accompagnata da un decentramento a Pescara di funzioni, strutture, assessorati e riunioni del consiglio, è stata una carta vincente. Per cui in Abruzzo non c'è una città che prevale, la grande metropoli che accentra, c'è invece una diffusione dei centri urbani e anche di potere».

Qui finisce il racconto del professor Felice. Che non è un Come eravamo, ma l'epopea di una generazione che ha fatto grande la nostra piccola regione. Quarant'anni dopo, tra tintinnar di manette, accuse e processi per corruzione, disoccupazione, debiti e tasse alle stelle, stiamo assistendo all'eutanasia di quel miracolo abruzzese. (3 - Segue)

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